di Bianca Cerri

Il cadavere misurava una cinquantina di centimetri in tutto e, dopo averlo steso su una barella, l’ausiliario lo ha trasportato fino ai locali della lavanderia della clinica da dove poi è stato prelevato e cremato in modo che non ne restasse traccia. Cancellare la vita di un malato di mente deforme è la cosa più facile del mondo in una clinica privata degli Stati Uniti. Per sottomere i soggetti agitati, gli infermieri hanno l’abitudine di somministrare sostanze chimiche e di ricorrere agli strumenti di contenimento, causando spesso la morte dei pazienti. Un’inchiesta e due coraggiosi documentari hanno finalmente rivelato al pubblico quello che per anni era rimasto sepolto dietro una spessa cortina fatta di indagini sciatte, comportamenti ambivalenti dei magistrati e promesse politiche mai mantenute. Il disagio psichico continua ad essere un fastidio per quasi tutte le società, ma negli Stati Uniti, quando un malato di mente muore all’interno di una struttura psichiatrica, preferiscono eliminare del tutto i segni del suo passaggio sulla terra. Gli ispettori sanitari non intervengono mai e le direzioni degli ospedali dove tra il 2002 ed il 2006 sono avvenuti circa 700 decessi - dovuti a maltrattamenti di varia natura - sono riuscite a far passare per morti naturali dei veri e propri omicidi. Nel film “Sicko”, Michael Moore ha fatto praticamente a pezzi il sistema sanitario americano e sembra che gli incassi lo stiano ripagando dalla fatica, ma centinaia di famiglie sono rimaste deluse dal fatto che il regista americano abbia lasciato fuori gli abusi ai danni di pazienti affetti da disagio psichico.

L’Home Reform Act impone ai centri specializzati in terapie psichiatriche di elaborare piani terapeutici studiati a seconda del problema, ma i medici continuano a trattare allo stesso modo uomini e donne, giovane ed anziani, somministrando a tutti le stesse sostanze. Ma ciò che veramente sorprende è che pur succhiando allo Stato milioni di dollari, le strutture psichiatriche continuino a servirsi della sottomissione fisica come metodo unico per controllare i soggetti problematici. L’aspetto più doloroso di questo stato di cose è che la medicina si ostina a definire “trattamenti” anche una vera e propria barbarie come i sistemi di contenimento coercitivo.

In realtà, si tratta di strumenti diabolici che spesso causano crisi respiratorie spesso fatali. Sono pratiche quotidiane anche le percosse e altri tipi di maltrattamenti fisici, ma le varie commissioni di vigilanza continuano a tollerare l’assunzione di infermieri ed ausiliari che, in alcuni casi, hanno alle spalle precedenti penali per reati di violenza. Sono persone incapaci di interagire con la malattia mentale assunti al termine di corsi di formazione in cui s’insegna solo a difendersi da eventuali attacchi. Sfortunatamente, ogni tentativo razionale di stabilire un regolamento sull’uso di cinghie e camicie di forza e sulle condizioni di vita negli ospedali psichiatrici è servito solo ad animare un dibattito tanto acceso quanto povero di contenuti.

Oggi, molte strutture psichiatriche negli Stati Uniti versano in condizioni terribili. Anche il dipartimento di Salute Mentale ha ammesso l’esistenza di lacune, ma senza spiegare nulla sul numero esorbitante di morti tra i pazienti. Quanto al personale, si barrica puntualmente dietro l’alibi delle legge sulla privacy e per un giornalista trovare le tracce del passaggio terreno di un essere umano soffocato dall’eccessiva pressione delle braccia di un infermiere o di un emorragia può diventare molto complicato.

A meno che non possa contare sull’aiuto di un avvocato che abbia esperienza in materia di cause o processi riguardanti le patologie psichiche o decessi sospetti all’interno di una struttura psichiatrica. Una cosa è certa: dal 1952 ad oggi, i metodi terapeutici riservati al disagio mentale sono rimasti gli stessi e almeno metà degli psichiatri in forza agli ospedali ha tratto profitti dai legami con le industrie che producono strumenti di contenimento coatto e con le case farmaceutiche che fabbricano sostanze spesso più nocive che benefiche per i malati di mente. Quanto al mondo politico, continua a fare più o meno lo stesso, anteponendo i propri interessi e quelli delle corporazioni che sfruttano il disagio psichico alla lotta delle famiglie che chiedono condizioni migliori nelle strutture.
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Nel lontanissimo 1861, il direttore del Bryce Mental Hospital, in Alabama, abolì l’uso degli strumenti coercitivi sui malati, imponendo al personale di trattare i degenti con cortesia, gentilezza e rispetto. Con l’avvento dell’era Wallace, negli anni ’70, il Bryce, a detta dei giornalisti del Montgomery Adviser divenne un campo di concentramento e tale rimane ancora oggi. L’unica differenza è che, essendo autorizzati dalla legge, i metodi “duri” non sono considerati abusi. Gli anni ’90, che avrebbero dovuto portare alla nascita di nuove leggi, sono stati solo il punto di partenza per la nascita di nuovi ghetti.

E solo qualche giorno fa i giornalisti scientifici dell’Atlanta Journal hanno denunciato 167 morti sospette su 363 avvenute nelle strutture psichiatriche dello Stato. Secondo BJ Walker, assessore alla Sanità di Atlanta, si tratterebbe di un esagerazione, ma è innegabile che la somministrazione di farmaci come il Risperdal e di sostanze come la torazina sia risultata fatale per più di un paziente. In altri casi, sarebbero bastate le braccia di un infermiere a causare un dramma irreversibile.

Forse i contribuenti non se ne rendono conto, ma sono loro a finanziare senza volerlo un sistema fatto di inettitudine, avidità e mancanza di scrupoli da parte dei medici nei confronti delle creature più fragili. Ci piacerebbe ricordare tutti coloro che ne sono stati vittime ma l’elenco sarebbe veramente troppo lungo. E’ tuttavia doveroso citare almeno i nomi dei giovanissimi affetti da disagio psichico morti all’interno delle strutture psichiatriche degli Stati Uniti, ad iniziare da Rochelle Claybourne, 16 anni, che morì dopo essere stata sottoposta ad un endovena di torazina e legata con delle strisce di Velcro che le attraversavano il torace, tanto strette da toglierle la possibilità di respirare. Quando l’hanno trovata, aveva il viso rivolto verso il pavimento. La bocca era aperta, come se avesse cercato disperatamente di inalare aria. Agli angoli, un filo di sangue.

Dopo Rochelle Clayborne, la lista di bambini e ragazzi morti dopo essere stati soggiogati con la forza si è allungata a dismisura. Mikie Garcia aveva solo 12 anni quando gli infermieri di una clinica psichiatrica di Ingram, in Texas, gli avevano bloccato polsi e caviglie prima di spingerlo a terra, dove Mikie aveva smesso di respirare. E in Tennessee, dove una ragazza di 14 anni, Linda Harris, si era incontrata con il padre Purcell poche ore prima di essere picchiata a morte dagli infermieri del Chad Youth Adjustment Center la notte fra il 18 ed il 19 settembre 2005. Due anni dopo, l’inchiesta non è ancora finita.

Giovanni Alteriz, 16 anni, morì il 4 febbraio 2006 al ViaQuest Behavioural Health, un istituto di rieducazione comportamentale che accoglie soprattutto ragazzi autistici in Pennsylvania, lo stesso dove nel dicembre del 2005 era morto il diciassettenne James White. Poco tempo fa, il Lancaster New Era ha pubblicato un’offerta di lavoro per conto del ViaQuest diretta ad un giovane diplomato “in grado di relazionarsi a malati mentali minorenni di sesso maschile con un passato di abusi sessuali e affetti da disagio psichico e ad intervenire in caso di crisi”. Inutile sottolineare che “intervenire” significa disciplinare i pazienti con la coercizione fisica, ma sarebbe interessante sapere perché mai al ViaQuest per esercitare la brutalità sia necessario essere diplomati.

Di Orlena Parker non sappiamo molto, a parte che aveva capelli neri lunghissimi, soffriva di depressione ed era ricoverata da mesi presso il Cleo Wallace Center, in Colorado. Orlena aveva solo 15 anni ma per gli infermieri del centro era troppo aggressiva, tanto che una domenica si sono messi in sette a legarla fino a quando non si è più mossa. Sul rapporto stilato dalla polizia si legge che gli infermieri erano “sei e non sette”, come se questo rendesse meno tragica la fine di una quindicenne, per altro archiviata il primo agosto scorso come “incidente”.

La morte di un adolescente è un evento tragico da qualunque lato la si osservi, ma quando è causata dalla negligenza degli adulti diventa qualcosa di insopportabile. Basterebbe varare nuove leggi e spazzare via le pratiche fraudolente a danno dei malati per evitare nuove tragedie, ma il business del disagio psichico è talmente grande che nessuno è interessato a farlo.



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