di Matteo Cavallaro e Giorgio Ghiglione

Il 7 Dicembre 2006 l’agenzia Associated Press batteva le parole, mai così veritiere, di George Bush: “It’s bad in Iraq”. In Iraq la situazione è pessima. Questa dichiarazione era pressoché contemporanea alla pubblicazione del rapporto Baker, il documento bipartisan che, nei fatti, boccia la linea sin qui adottata nel gestire la guerra al terrore. Scrive infatti nelle proprie conclusione la commissione: “Nonostante uno sforzo massiccio, la stabilità in Iraq rimane un miraggio e la situazione si sta deteriorando”. Pare insomma che l’intera classe dirigente degli Stati Uniti si sia finalmente resa conto della reale gravità in cui versa il paese occupato. Forti di questa nuova consapevolezza negli Stati Uniti in molti si adoperano a pensare ad una exit strategy che permetta di salvare l’onore, il denaro e la pelle. E non necessariamente in questo ordine. Il già citato rapporto Baker parla della necessità di “costruire un nuovo consenso internazionale per la stabilità in Iraq e nella regione”. Si tratta quindi di un ritorno al realismo “kissingeriano” tanto osteggiato dalla lobby neo-con di Washington.
Ma in un certo senso si va oltre. Se per Kissinger bastava, secondo il precetto maoista, sedersi sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico, per la commissione bisogna coinvolgere il lato mediorientale dell’asse del male nelle trattative. Questo approccio rischia di essere perdente con l’Iran di Ahmedinejad, ma lo stesso non si può dire per quella Siria di Bashar Al-Asad, la cui alleanza con Teheran è puramente tattica e che non vede l’ora di essere depennata dalla lista dei cattivi senza peraltro dover fare nessuna concessione. Anzi, magari ottenendo un tacito accordo con gli Usa per tenerli fuori dalla politica interna libanese.

Naturalmente non tutti a Washington hanno accolto con favore il rapporto Baker-Hamilton. In particolare il Partito Repubblicano e i mezzi di informazione ad esso collegati hanno espresso commenti e giudizi durissimi sull’operato e sulle conclusioni della commissione.
In una intervista al quotidiano La Repubblica il neo-conservatore Daniel Pipes definisce i dieci “saggi” come degli “incompetenti” e dei “pensionati della politica”. Meno diretto, ma egualmente esplicito, il commento di John Kagan dalle pagine del Weekly Standard, la bibbia neo-con. In un articolo intitolato “Missing the obvious” il columnist accusa la commissione di avere ben poco da aggiungere al dibattito sulla exit strategy. E se il tabloid New York Post, da sempre su posizioni conservatrici, titola “Baker’s Sellout Plan”, accusando la commissione di volere attuare una vera e propria svendita della lotta al terrorismo, è invece ironico il titolo del National Review: “Bentornati al 10 Settembre”, come dire che Baker e soci non si sono accorti delle minacce globali che hanno aggredito gli Stati Uniti.

Questa alzata di scudi non deve trarre in inganno, la situazione ormai è talmente compromessa che anche la destra americana ritiene che vi siano stati madornali errori nella gestione del dopoguerra.
Solo che per questi intellettuali gli errori non stanno nell’eccesso di unilateralismo adottato nella campagna irachena prima e dopo, ma bensì nell’aver esportato la democrazia troppo presto.
Bisogna quindi accantonare l’idea di trasformare l’Iraq in un paese libero e democratico e preoccuparsi solo ed esclusivamente dei sensibili benefici che l’occupazione porta agli occupanti.
Sempre su La Repubblica, infatti, Daniel Pipes sostiene che la Casa Bianca ha agito in maniera troppo ideologica e poco pragmatica. Pertanto, secondo l’intellettuale americano, è necessario rielaborare la politica irachena in base agli obiettivi strategici. Agli iracheni ci pensino gli iracheni, in parole povere. Magari con un bel governo autoritario su posizioni filoamericane.

Il ritorno dell’uomo forte non è però una prerogativa del solo Pipes. Anche Edgar N. Luttwak, analista politico-militare noto praticamente solo al pubblico italiano, sogna un Iraq retto con pugno di ferro individuando addirittura un possibile candidato, nientemeno che quel Saddam Hussein indicato come peggior dittatore sulla faccia della terra non più tardi di qualche anno fa. Tutto questo per la gioia di sciiti e curdi, felicissimi di vedere tornare al potere colui che li aveva perseguitati per quasi un quarto di secolo. A tutti costoro fa sponda l’indipendente e già candidato alla vicepresidenza coi Democratici nel 2000, Joe Lieberman, che nei giorni scorsi ha criticato severamente le idee della commissione riguardo al coinvolgimento di Iran e Siria.

In questa giostra di soluzioni più o meno attuabili, l’unico a non sbottonarsi è il diretto interessato: George W. Bush. Il quale si limita ad aggiungere al “It’s bad in Iraq” una frase ambigua e quasi paradossale: “Ho detto a lungo al popolo americano quanto la situazione fosse difficile e loro hanno capito quanto sia dura. La questione è: abbiamo la capacità di cambiare come è cambiato il nemico?”. Nei prossimi mesi, forse, riusciremo a capire a cosa realmente si riferisca l’ansia di cambiamento del Presidente americano. Nel mentre, l’Iraq continua a bruciare.



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