di Carlo Musilli

È diventato una celebrità planetaria, ma lo ha scoperto con 48 ore di ritardo. A dirglielo sono stati gli agenti del carcere di Jinzhou, nella Cina del nord. Il giorno dopo Liu Xiaobo è uscito per qualche minuto dalla cella di 30 metri quadri dove vive da quasi due anni insieme ad altre cinque persone. E ha incontrato sua moglie, Liu Xia. Le ha detto di far sapere al mondo che il suo premio appartiene alle anime dei ragazzi morti a piazza Tienanmen. Liu Xiaobo ha vinto il Nobel per la pace 2010.

Il regime cinese lo considera un pericoloso dissidente, ma il Comitato di Oslo ha deciso di premiarlo “per la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina”. Non basta, i norvegesi hanno calcato la mano: “Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità - si legge nelle motivazioni del premio -  el a Cina viola diversi accordi internazionali di cui è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani”.

Un affronto per Pechino, che nei mesi scorsi aveva fatto pressioni sul Comitato, minacciando gravi conseguenze sui rapporti diplomatici fra Cina e Norvegia nel caso in cui il Nobel fosse andato a Xiaobo. Non era un bluff: dopo la cerimonia di premiazione l’ambasciatore norvegese è stato convocato per una protesta formale.

Ma il regime si è dato da fare su più fronti. Prima ha definito “un’oscenità” l’assegnazione del riconoscimento “a un criminale condannato dalla giustizia cinese”. Poi è sceso in strada a far vedere i muscoli. Decine di persone sono state arrestate nei bar e nei ristoranti di Pechino. Gli sciagurati volevano festeggiare in nome di Xiaobo. Com’era prevedibile, la polizia non ha risparmiato nemmeno Liu Xia. Sono andati a prenderla e l’hanno costretta a lasciare la capitale. Ora la donna è agli arresti domiciliari. Segregata in una casetta nella periferia della sua città, circondata da soldati. Non deve parlare con i media internazionali.

Per quelli nazionali, infatti, da subito sono scattate le misure più severe. La diretta Bbc della premiazione è stata interrotta due volte. Dai giornali online sono stati rimossi tutti gli articoli dedicati ai Nobel 2010 e l’accesso al sito ufficiale del premio è stato chiuso. La censura è arrivata perfino agli sms: che fossero scritti in caratteri cinesi o latini, tutti i messaggini contenenti le parole “Liu Xiaobo” sono stati bloccati. Facebook, Twitter, Youtube, Wikipedia, tutto oscurato. Un’impresa titanica, più che mai antistorica.

Come si può pensare di tenere all’oscuro 1,3 miliardi di persone? La Repubblica Popolare ci riesce, anche se qua e là si aprono crepe nel muro. Gli hacker esistono, e quelli cinesi sono anche bravi. Sopravvive un canale ristrettissimo di libera circolazione delle informazioni, che funziona soprattutto grazie alle comunità cinesi all’estero. Ma per la stragrande maggioranza del “Popolo”, la luce rimane spenta.

Nonostante tutto, la Cina non ha potuto evitare che il mondo si accorgesse improvvisamente di Liu Xiaobo, il professore universitario di letteratura che nel giugno 1989, insieme ai suoi allievi Wang Dan e Wu’Er Xi, fondò la Federazione Autonoma degli Studenti, struttura portante della protesta contro il regime. All’epoca, Xiaobo comprese in anticipo la sconfitta e convinse centinaia di studenti ad abbandonare piazza Tienanmen prima del massacro.

Lui, però, rimase. Fu arrestato e condannato a 18 mesi di prigione come controrivoluzionario. Uscito, nel giro di due anni si guadagnò una nuova condanna per “propaganda e istigazione controrivoluzionaria”. “Disturbi alla quiete pubblica” la colpa per cui nel 1996 venne spedito per tre anni in un “laogai”, eufemisticamente traducibile come “campo di rieducazione ideologica”.

Tornato libero, andò a insegnare prima negli Stati Uniti, poi in Europa. Rientrò a Pechino nel 2004. Quattro anni dopo contribuì a scrivere e a diffondere la “Charta 08”, manifesto degli attivisti cinesi in cui si chiede al governo di rispettare i diritti umani, fare riforme politiche e assicurare indipendenza al potere giudiziario. L’8 dicembre venne arrestato per la quarta volta. La condanna a 11 anni di reclusione per “incitamento alla sovversione ai danni dello Stato” arrivò il 25, quando il mondo era distratto dal Natale.

Dopo l’assegnazione del Nobel, improvvisamente tutti i più importanti capi di Stato si sono ricordati di Xiaobo e hanno elogiato con solennità la scelta del Comitato di Oslo. Stati Uniti, Francia e Germania si sono spinti perfino a chiedere la liberazione del dissidente. Via Twitter, si è aggiunto il Dalai Lama, dal suo esilio in India. Jens Stoltenberg, il premier norvegese, si è limitato invece a uno striminzito comunicato stampa. In questi giorni è in vacanza all’estero. Che tempismo.

 

 

 

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