di Michele Paris

L’ennesimo annuncio fatto martedì dagli Stati Uniti del lancio di negoziati di pace con i Talebani è andato subito incontro ad alcuni prevedibili ostacoli che già avevano caratterizzato i precedenti tentativi e che mettono a forte rischio anche solo l’apertura di un serio tavolo di discussione tra le due parti in conflitto da quasi dodici anni.

Il primo round di colloqui andrà in scena nella giornata di giovedì a Doha, la capitale del Qatar, dove i Talebani afgani hanno aperto un loro ufficio di rappresentanza. A darne notizia sono stati per primi gli americani, seguiti poche ore più tardi da un comunicato di conferma letto in diretta TV da un portavoce degli stessi Talebani, Muhammad Naeem.

In esso, questi ultimi hanno affermato di essere disposti ad acconsentire a due delle tre condizioni preliminari imposte dagli Stati Uniti per l’avvio di un confronto, vale a dire la volontà di cercare “una soluzione politica e pacifica al conflitto” e il dissociamento di fatto da Al-Qaeda, sostenendo di “non consentire a nessuno di minacciare la sicurezza di altri paesi [con operazioni organizzate] dal territorio dell’Afghanistan”. Della terza condizione - il rispetto della Costituzione afgana, inclusi i diritti delle donne e delle minoranze etniche e religiose - non c’è stata invece traccia nel comunicato ufficiale.

La notizia dei colloqui è stata commentata positivamente dall’amministrazione Obama, con lo stesso presidente democratico che prima di lasciare l’Irlanda del Nord, dove martedì si è chiuso il vertice del G-8, l’ha definita “un primo importante passo verso la riconciliazione”, nonostante rimangano “numerosi ostacoli lungo la strada”.

Per rafforzare l’impressone di un qualche progresso in atto nel lungo conflitto, l’annuncio da parte degli Stati Uniti è giunto intenzionalmente in concomitanza con la cerimonia ufficiale per il trasferimento formale dei compiti della cosiddetta “sicurezza primaria” in Afghanistan dalle forze NATO all’esercito indigeno.

Le difficoltà evocate da Obama si sono comunque materializzate immediatamente, quando mercoledì il presidente Karzai ha dato notizia della sospensione improvvisa dei negoziati in corso tra il suo governo e quello USA per finalizzare un accordo che consenta la presenza indefinita di un certo numero di truppe americane in territorio afgano dopo il 2014, quando tutto il contingente straniero dovrebbe lasciare il paese.

Nel giustificare la decisione, il fantoccio di Washington a Kabul ha criticato apertamente l’amministrazione Obama per la politica “imprevedibile” e “contraddittoria” messa in atto in Afghanistan, con un chiaro riferimento alla sua irritazione per l’annuncio dei colloqui di Doha. Il timore principale di Karzai sembra essere quello di rimanere tagliato fuori da un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani, dal momento che, in uno scenario nel quale questi ultimi dovessero tornare a giocare un ruolo di primo piano nel panorama politico afgano, i colossali benefici di cui ha goduto il presidente per oltre un decennio assieme alla sua cerchia di potere finirebbero per svanire.

Karzai, in realtà, si era più volte mostrato disponibile a trattare con i Talebani, come aveva confermato una sua visita a Doha a fine marzo per incontrare l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, durante la quale aveva invitato i membri del precedente regime fondamentalista a “tornare a casa nella loro terra”. Le trattative con i Talebani, però, dal suo punto di vista devono avvenire sotto la regia del governo di Kabul, mentre gli incontri di Doha con rappresentanti dell’amministrazione Obama dovrebbero essere soltanto un atto preliminare. I Talebani, invece, preferiscono discutere direttamente con gli USA, ben sapendo chi sia a muovere i fili a Kabul.

Il governo americano, in ogni caso, non deve avere preso troppo bene la reazione così dura di Karzai, la cui firma sul trattato che consentirà a qualche migliaia di truppe di rimanere indefinitamente in Afghanistan risulta fondamentale ai fini della propria strategia di lungo termine nella regione.

Avendo ormai preso atto dell’impossibilità di sconfiggere militarmente la resistenza all’occupazione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti intendono infatti coltivare rapporti con quelle fazioni talebane disposte a condividere il potere a Kabul con membri dell’attuale regime e, allo stesso tempo, ad accettare una presenza militare americana prolungata nel paese.

Uno scenario di questo genere è precisamente quello che Karzai aveva prospettato ai Talebani nella già ricordata trasferta di Doha meno di tre mesi fa, quando aveva affermato che gli americani “rimarranno anche dopo il 2014” e che essi “vogliono almeno cinque basi militari in diverse parti dell’Afghanistan, dal nord all’ovest del paese”.

La mancata integrazione di almeno una parte dei Talebani nel sistema politico afgano, assieme al ritiro totale delle forze di occupazione, invece, determinerebbe con ogni probabilità la fine del regime-fantoccio guidato da Karzai o dal successore che prenderà il suo posto dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno, mettendo in serio pericolo la promozione degli interessi statunitensi in quest’area cruciale del pianeta.

L’importanza del raggiungimento di un trattato con Kabul per prolungare l’occupazione è stata confermata dagli stessi commenti rilasciati martedì dagli esponenti dell’amministrazione Obama sui colloqui di Doha, attentamente studiati, sia pure senza troppo successo, per non irritare Karzai. Gli USA hanno così ricordato che la discussione avrà obiettivi limitati e che di gran lunga più importanti saranno i negoziati di pace tra i Talebani e il governo Karzai. Quest’ultimo dovrebbe essere rappresentato dal cosiddetto Alto Consiglio per la Pace, i cui membri sono attesi dagli americani a Doha nelle prossime settimane.

Sul percorso di riconciliazione promosso dagli Stati Uniti pesa però anche l’incognita delle intenzioni dei Talebani. Innanzitutto, sono in molti a nutrire dubbi sull’effettiva autorità della delegazione talebana a Doha e sul fatto che essa rappresenti realmente i vertici degli “studenti del Corano”. Simili sospetti sono più che legittimi, soprattutto alla luce delle trattative segrete condotte nel recente passato a Kabul con un presunto comandante di primo piano dei Talebani che nel 2010 si rivelò essere un impostore.

Per cercare di fugare ogni dubbio in questo senso, gli americani hanno assicurato nei giorni scorsi che la Commissione Politica dei Talebani con la quale terranno i primi colloqui giovedì in Qatar è stata pienamente autorizzata da tutte le fazioni del movimento e dal suo leader, il Mullah Muhammad Omar.

Inoltre, l’obiettivo dei colloqui per i Talebani coincide a fatica con quello degli Stati Uniti. L’incontro di Doha potrebbe infatti servire unicamente come palcoscenico di rilievo per guadagnare una qualche legittimità a livello internazionale in vista di un prossimo ritorno al potere a Kabul e, soprattutto, la ferma volontà americana di mantenere un consistente numero di propri soldati in Afghanistan dopo il 2014 si scontra in maniera evidente con i progetti talebani per il futuro del paese.

Questa realtà è apparsa in tutta la sua chiarezza proprio all’indomani dell’annuncio del vertice in Qatar, quando i Talebani hanno rivendicato un nuovo attacco contro gli occupanti, questa volta con il lancio di due missili sulla pista di atterraggio della base militare di Bagram, uccidendo quattro soldati americani.

Oltre a confermare che non ci saranno sconti sul campo di battaglia anche se i colloqui di pace dovessero proseguire, il testo della rivendicazione talebana dell’azione di mercoledì ha precisamente preso di mira il punto cardine dei piani degli Stati Uniti per il futuro dell’Afghanistan e da cui gli americani non saranno disposti a transigere nel corso dei negoziati, cioè la conservazione di una presenza militare di lungo periodo nel tormentato paese centro-asiatico.

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