di Michele Paris

Il rifiuto senza precedenti dell’Arabia Saudita ad occupare il seggio provvisorio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al quale la monarchia del Golfo Persico era stata eletta la scorsa settimana, continua a far interrogare i commentatori di mezzo mondo e ad essere oggetto di intense discussioni negli ambienti diplomatici internazionali. Come è noto, l’ambasciatore saudita presso l’ONU aveva inizialmente salutato con entusiasmo l’ottenimento di un seggio per il quale il suo governo lavorava da mesi.

Successivamente, però, nella giornata di venerdì una dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri di Riyadh ha annunciato la clamorosa marcia indietro, denunciando le Nazioni Unite per utilizzare “due pesi e due misure” e per “l’incapacità a svolgere le proprie funzioni”, in particolare in relazione al conflitto in Siria.

L’Arabia Saudita ritiene cioè che la paralisi e i disaccordi all’interno del Consiglio di Sicurezza abbiano consentito al regime siriano di continuare ad “uccidere la propria gente” e ad utilizzare armi chimiche “di fronte al mondo intero senza alcun deterrente o punizione”.

Oltre alla falsità delle accuse rivolte contro Damasco circa un impiego di armi chimiche probabilmente attribuibile ai “ribelli” anti-Assad, che operano proprio grazie all’assistenza saudita, la dura presa di posizione di Riyadh è giunta oltretutto dopo che per la prima volta in oltre due anni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha trovato l’unanimità sulla Siria approvando la risoluzione 2118 per lo smantellamento dell’arsenale chimico del regime alauita.

In realtà, dunque, il rifiuto del seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza da parte dell’Arabia Saudita è dovuto se mai alla frustrazione diretta verso questo organismo per non essere stato in grado di autorizzare un intervento armato contro la Siria, come auspicato da Riyadh per rimuovere con la forza Bashar al-Assad.

Soprattutto, però, l’insolito gesto dei vertici sauditi, come avrebbe detto ad alcuni diplomatici occidentali lo stesso principe Bandar Bin Sultan, potente capo dell’intelligence di Riyadh e già ambasciatore a Washington per oltre due decenni, appare come “un messaggio diretto agli Stati Uniti”.

L’isteria saudita ha infatti raggiunto livelli inediti in seguito alle recenti iniziative dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, principalmente riguardo la Siria e l’Iran. L’abbandono almeno temporaneo dei piani di guerra contro Damasco e l’apertura di un confronto diretto con Teheran sul nucleare hanno suscitato le ire della casa regnante a Riyadh che ha visto seriamente minacciati i propri interessi e progetti egemonici nella regione dal comportamento del suo stesso alleato principale.

L’Arabia Saudita, d’altra parte, è uno dei paesi che ha investito maggiormente nel finanziamento e nella fornitura di armi alle milizie integraliste che si battono contro il regime di Assad in Siria. Questo sforzo rientra in una strategia più ampia volta a spezzare l’asse della resistenza sciita anti-americana e anti-saudita in Medio Oriente, al cui centro c’è precisamente la Repubblica Islamica, il cui eventuale riconoscimento come legittima potenza regionale da parte degli USA e dell’Occidente in generale rappresenta un vero e proprio incubo per Riyadh.

L’allarme suonato tra i vertici di uno dei regimi più retrogradi e anti-democratici del pianeta è apparso in tutta la sua evidenza in un dettagliato articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal, nel quale viene descritto come il principe Bandar Bin Sultan starebbe pianificando un certo ridimensionamento della collaborazione con gli Stati Uniti per addestrare e sostenere finanziariamente le formazioni “ribelli” in Siria.

Secondo il quotidiano newyorchese, l’aggravamento delle tensioni tra i due alleati era iniziato alcuni mesi fa e due episodi in particolare nelle ultime settimane hanno ulteriormente allarmato i sauditi. Nel primo caso, dopo che Riyadh aveva chiesto a Washington i piani dettagliati relativi alle navi da guerra USA da posizionare a difesa dei centri petroliferi sauditi in vista dell’aggressione contro la Siria, l’amministrazione Obama ha risposto che le proprie forze navali non sarebbero state in grado di difendere pienamente queste strutture situate nella provincia orientale del paese alleato.

Nel secondo caso, descritto da un anonimo diplomatico occidentale, l’Arabia Saudita avrebbe richiesto invece agli americani la lista degli obiettivi da colpire in Siria nel tentativo di avanzare la partnership militare con Washington, ma senza ottenere risposta.

In conseguenza di questi due incidenti diplomatici, i sauditi avrebbero così comunicato agli americani l’intenzione di valutare possibili alternative alla tradizionale collaborazione in materia di difesa, sottolineando il proposito di “cercare buoni armamenti a prezzi convenienti” da qualsiasi fornitore.

Lo stesso pezzo del Wall Street Journal è pervaso poi da commenti di svariati diplomatici europei e americani che, a conferma delle preoccupazioni ugualmente diffuse a Washington e a Bruxelles per le tensioni tra i due alleati, descrivono ad esempio i sauditi come “adirati” o “molto preoccupati per il fatto di non sapere dove vogliano andare gli Stati Uniti”.

Il deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita, in ogni caso, è un’altra delle conseguenze dell’interventismo di Washington in Medio Oriente per promuovere i propri interessi strategici e che, puntualmente, contribuisce ad alimentare le rivalità regionali. Il relativo raffreddamento dei rapporti tra i due alleati potrebbe così aggravare ulteriormente l’instabilità di tutta l’area, dal momento che Riyadh controlla e utilizza secondo le proprie necessità non solo l’arma del petrolio ma anche formazioni fondamentaliste violente, come sta accadendo in Siria.

Più in generale, come ha fatto notare una recente analisi del quotidiano libanese Al Akhbar, la crisi che deve fronteggiare l’Arabia Saudita dipende anche dalla diminuita dipendenza americana dal petrolio di questo paese rispetto a qualche anno fa, soprattutto dopo la scoperta e lo sfruttamento di giacimenti in territorio americano che stanno trasformando gli USA in un esportatore netto di greggio e gas naturale.

Il rapporto con l’Arabia, comunque, rimane per il momento di primaria importanza per gli Stati Uniti, come conferma il tentativo fatto dal Segretario di Stato americano, John Kerry, nella giornata di lunedì, quando ha incontrato a Parigi la sua controparte saudita, principe Saud al-Faisal, per confortare il regime e convincerlo ad accettare il seggio al Consiglio di Sicurezza.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha infine fatto sapere di non avere ancora ricevuto alcuna comunicazione formale da parte di Riyadh circa la rinuncia annunciata settimana scorsa, lasciando aperto uno spiraglio per un ripensamento. Uno scenario, quest’ultimo, tutt’altro che da escludere, soprattutto se la monarchia assoluta saudita dovesse essere sufficientemente rassicurata sulle intenzioni ultime degli Stati Uniti di mantenere alta la pressione sia su Damasco che su Teheran al di là dei modesti passi avanti sul fronte diplomatico compiuti nelle ultime settimane.

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