di Mario Lombardo

Con il voto in alcuni stati della costa orientale, nella giornata di martedì si è chiusa negli Stati Uniti la stagione 2014 delle primarie in vista delle elezioni di metà termine del 4 novembre prossimo per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington. L’appuntamento con le urne, già tradizionalmente disertato da molti elettori in assenza della sfida per la Casa Bianca, anche se potrebbe decidere il cambio di maggioranza al Senato, sembra suscitare ben poco interesse al di fuori dei media ufficiali e dei circoli di potere, confermando la crescente sfiducia degli americani verso un sistema totalmente bloccato e privo di reali alternative politche.

A rendere ancora più cupo un clima generale fatto di difficoltà economiche persistenti, disuguaglianze sociali senza precedenti e preparativi per nuove guerre oltreoceano, sembra essere non solo la realtà di due partiti pro-business praticamente intercambiabili che monopolizzano la scena politica statunitense, ma anche la scarsità di sfide realmente competitive che andranno in scena tra meno di due mesi.

Come previsto negli USA, nel “midterm” la Camera dei Rappresentanti verrà rinnovata completamente, mentre al Senato saranno in palio 36 seggi sui 100 complessivi, di cui 21 attualmente detenuti da democratici e 15 da repubblicani.

Nel caso della Camera, è opinione ampiamente condivisa che i repubblicani riusciranno a conservare la maggioranza in maniera agevole, con addirittura un possibile incremento del margine di 35 seggi (234-199) che vantano sui democratici nel 113esimo Congresso uscente.

Dal momento che gli equilibri nei distretti elettorali dei singoli stati per la Camera di Washington risultano in gran parte consolidati, in pratica poco più di una settantina di seggi vedranno una reale competizione tra i candidati dei diversi schieramenti. Ancora meno sono poi i seggi per i quali le sfide si annunciano equilibrate, così che la composizione finale della Camera si discosterà solo in minima parte da quella attuale.

La drastica diminuzione del numero di elezioni competitive per la Camera è in parte il risultato delle modifiche dei distretti elettorali messe in atto in questi anni dalle assemblee legislative locali per assicurare il dominio di uno dei due partiti, attraverso l’inclusione nei confini dei distretti stessi di città o quartieri i cui elettori tendono a votare per il partito che si intende favorire e l’esclusione di quelli che propendono per l’avversario.

Soprattutto, però, questa dinamica è il risultato di una consolidata polarizzazione dell’elettorato americano, riscontrabile però quasi esclusivamente tra una percentuale relativamente ristretta di votanti che partecipano attivamente al processo di selezione della classe dirigente, laddove la grande maggioranza della popolazione rimane indifferente di fronte ad una scelta limitata a due partiti che sono espressione di diverse sezioni delle élites economico-finanziarie del paese.

Casi emblematici di questa realtà sono gli stati solitamente ascrivibili al Partito Democratico o a quello Repubblicano. Come accade nel corso delle campagne elettorali presidenziali, infatti, anche nella corsa al Congresso il partito che raccoglie ben poche fortune in un determinato stato evita in sostanza di “sprecare” risorse economiche in una competizione persa in partenza.

Ciò è evidente ad esempio in vari stati del sud, a grande maggioranza repubblicana, o viceversa nel nord-est e sulla costa occidentale, dove a prevalare sono i democratici. Particolarmente significativi sono i casi di California e Texas, i due stati con le più nutrite delegazioni alla Camera. In entrambi gli stati, secondo gli analisti d’oltreoceano, complessivamente solo due seggi sembrano essere realmente in bilico tra i candidati in corsa sui 55 in palio nel primo e i 36 nel secondo.

In molti casi, inoltre, il partito sfavorito non ha nemmeno presentato un candidato, come nello stesso Texas, dove i democratici non saranno presenti in una decina di distretti su 36. Le sfide per la Camera, in definitiva, si sono risolte in buona parte durante le primarie dei mesi scorsi, con i confronti interni ai due partiti tra l’anima moderata e ultra-conservatrice dei repubblicani e tra quella ugualmente moderata e “progressista” dei democratici.

Secondo gli standard dei media ufficiali americani, maggiore interesse dovrebbe destare la sorte del Senato, dove la maggioranza democratica di 55 seggi contro i 45 dei repubblicani appare seriamente a rischio. Anche in questo caso, dei 36 seggi che verranno rinnovati solo la metà circa vedrà sfide competitive, quasi tutte in stati tradizionalmente repubblicani o in bilico tra i due partiti.

Se i seggi aperti di Montana, South Dakota e West Virginia, dove i senatori democratici in carica hanno da tempo annunciato il loro ritiro, sembrano destinati ai repubblicani, altri quattro stati vinti da Mitt Romney su Obama nelle presidenziali del 2012 - Alaska, Arkansas, Louisiana e North Carolina - appaiono in bilico e, anzi, vedono al momento leggermente favoriti i democratici.

Questi ultimi hanno però dei margini molto ristretti visto il clima politico a loro sfavorevole e non possono permettersi in pratica nessuna sconfitta in stati dove sono maggiormente favoriti, nonostante debbano talvolta fronteggiare agguerriti rivali repubblicani.

Pur dovendo giocare sulla difensiva, il Partito Democratico ha comunque qualche carta da giocare in tre stati dove i seggi in palio sono occupati da senatori repubblicani. In Kentucky a essere in pericolo è addirittura il leader di minoranza Mitch McConnell, accreditato dai sondaggi solo di un lieve vantaggio sulla 35enne democratica Alison Lundergan Grimes. In Georgia, invece, i democratici con Michelle Nunn - figlia dell’ex senatore Sam Nunn - sembrano avere un margine, anche se precario, sull’imprenditore repubblicano David Perdue.

Più complessa è infine la situazione in Kansas, dove il ritiro del candidato democratico, il procuratore distrettuale Chad Taylor, avrebbe singolarmente complicato le cose per il repubblicano in carica, Pat Roberts. La mossa di Taylor, infatti, potrebbe favorire un candidato indipendente ben finanziato, l’imprenditore Greg Orman, il quale secondo alcuni avrebbe accettato di votare con i democratici se eletto al Senato in cambio, appunto, del ritiro dalla corsa dello stesso Taylor.

I repubblicani stanno investendo ingenti risorse per conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, così da ostacolare ulteriormente, secondo la versione ufficiale, l’implementazione dell’agenda del presidente Obama o per promuovere il loro programa. In realtà, anche se il Senato dovesse passare di mano, le differenze rispetto alla situazione attuale nei prossimi due anni potrebbero non essere particolarmente evidenti.

Obama, oltre a mantenere il potere di veto sui provvedimenti del Congresso che può essere neutralizzato solo con una maggioranza dei due terzi di entrambe le camere, ha già visto affondare in questi anni molte delle sue iniziative alla Camera dei Rappresentanti, nonostante l’appoggio della maggioranza democratica al Senato. Quel che è certo, è che il ribaltamento degli equilibri al Senato produrrebbe invece un nuovo spostamento a destra dell’asse politico di Washington.

In ogni caso, se fino a pochi mesi fa le probabilità di mantenere una maggioranza anche risicata al Senato sembravano reali per i democratici, oggi la situazione appare ribaltata e il partito del presidente viene dato decisamente in affanno.

A conferma di quanto descritto in precedenza sulla totale sfiducia degli elettori verso la classe politica americana, un recentissimo sondaggio Gallup ha rivelato come appena il 14% degli elettori approvi l’operato del Congresso. Questo livello infimo di gradimento a due mesi dalle elezioni è il più basso mai registrato da Gallup da quarant’anni a questa parte.

L’insoddisfazione si concretizzerà con percentuali di astensione elevatissime, mentre saranno i democratici a pagarne maggiormente il prezzo nelle scelte degli elettori, visto che controllano la Casa Bianca. Anche se il suo nome non apparirà sulle schede, Obama rappresenta poi un’ulteriore zavorra per i candidati democratici, soprattutto negli stati considerati di tendenze conservatrici, come dimostra il gradimento in continua caduta della sua amministrazione.

Assieme alle elezioni per il Congresso, il 4 novembre gli elettori americani saranno chiamati a scegliere anche molti governatori e assemblee legislative statali, dove a dominare attualmente sono i repubblicani. Dopo i successi del 2010, però, governatori e parlamentari locali del Partito Repubblicano hanno generalmente messo in atto devastanti politiche anti-sociali e sembrano quindi dover andare incontro a non poche sconfitte.

Tra i governatori repubblicani maggiormente a rischio ci sarebbero Tom Corbett (Pennsylvania), Rick Snyder (Michigan), Scott Walker (Wisconsin) e Rick Scott (Florida). Il possibile cambio alla guida di questi stati non preannuncia comunque significative variazioni dell’agenda politica, come potrebbe accadere in Florida, dove il candidato democratico sarà infatti un ex repubblicano, vale a dire l’ex governatore Charlie Crist.

Nel complesso, il voto di “midterm” è caratterizzato da livelli di spesa da record nelle campagne elettorali, grazie anche a più o meno recenti sentenze della Corte Suprema che hanno abbattuto gran parte dei limiti alle contribuzioni per i donatori più facoltosi. In alcune competizioni a livello statale, come in quella per un seggio al Senato in Kentucky o per la carica di governatore in Florida, la spesa complessiva dei candidati ha addirittura già superato i 100 milioni di dollari.

Questa è d’altra parte la logica conseguenza dell’evoluzione di un sistema politico fatto di ricchi e al servizio dei ricchi, con la conseguente emarginazione delle classi disagiate, tanto che il continuo lievitare delle somme spese nelle campagne elettorali risulta ormai inversamente proporzionale al livello di interesse degli elettori e alla credibilità agli occhi di questi ultimi della classe politica americana.

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