di Fabrizio Casari

David Haines, cooperante inglese, è l’ennesima vittima occidentale dei barbari che sognano il califfato. Alla vigilia della Conferenza di Parigi e in risposta alla dichiarazione di guerra o quasi lanciata da Obama 48 ore prima, l’ISIS ha reagito su due piani: con quello truce e spettacolare della decapitazione del prigioniero inglese e - aspetto decisamente più complesso - siglando un accordo con le altre componenti della guerriglia islamica tra le quali Al Nusra, di estrazione quedista, e il cosiddetto ”Esercito libero siriano”, creatura decisamente inglese.

La mossa di Al-Baghdadi funziona, perché da un lato provoca Londra e Washington e li sfida, dall’altro riduce le possibilità di risposta angloamericane, poiché l’ISIS è ora alleato con gli alleati di Washington e Londra e dunque attaccarlo dal cielo diverrebbe un attacco all’insieme delle forze anti-Assad. L'Occidente è ora obbligato a dividere in due le risposte: una per quanto riguarda la Siria, l'altra per quanto riguarda l'Iraq, perchè l'ISIS è nello stesso tempo alleato e nemico a seconda dello scenario. E se non è chiaro chi e cosa colpiranno i droni USA in Siria, in Iraq l’intervento di terra è l’unico in grado di distruggere l’ISIS ma è anche l’unica opzione esclusa dagli USA. La sostanziale dichiarazione di guerra all’ipotetico califfo, al momento, sembra così essere più una reazione obbligata.

Obama dunque sembrerebbe all’angolo: se bombardasse l’ISIS bombarderebbe gli alleati dei suoi amici e, indirettamente, aiuterebbe Assad, la cui caduta resta l’obiettivo primario, ma non potrà nemmeno restare con le mani in mano dopo aver chiamato alle armi mezzo mondo. Ma qui sta la prossima mossa statunitense: l’intenzione di Obama di bombardare la Siria, ove non fosse coordinato con il governo di Assad, non sarà tanto quella di colpire l’ISIS ma, con ogni evidenza, quella di colpire Damasco.

Si può pensare che gli Stati Uniti siano stati colti di sorpresa dall’accordo tra le componenti che ricevono da Washington e Londra armi e denaro, ma non è così. Non è infatti minimamente credibile che la CIA e il non meno attivo MI-5 britannico, anelli di congiunzione operativa tra i vari gruppi anti-Assad, non sapessero cosa succedeva nelle file dei terroristi sunniti. E meno che mai si può rimanere stupiti dall’accordo tra loro, dal momento che solo la propaganda occidentale racconta la storiella della divisione tra “moderati” ed “estremisti” tra le fila degli oppositori al regime siriano.

C’è da ridere nello scoprire che Al-Nusra e gli jahidisti del cosiddetto “esercito libero siriano” siano moderati, ma il racconto delle loro presunte differenze prosegue senza sosta. Sono invece la stessa cosa, hanno lo stesso credo e gli stessi padroni; si scontrano tra loro per stabilire chi deve avere l’egemonia della guerriglia, chi deve drenare e gestire i miliardi di dollari di finanziamenti e il flusso ininterrotto di armi che giungono da Arabia Saudita e Qatar. Ma vengono dallo stesso ceppo sunnita e hanno identico odio per gli sciiti, hanno gli stessi alleati e gli stessi nemici.

Ma da dove viene l’ISIS e come nasce? Da un punto di vista organizzativo, l’ISIS nasce da una scissione di Al-Queda in Siria. Ma primi nuclei di quello che poi diverrà l’ISIS nascono in Libia nel 2011. Caduto il rais libico, le milizie sunnite passano in Siria per provare a bissare con Assad quanto avvenuto con Gheddafi. E’ qui che nasce l’ISIS, armato e finanziato da Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e in qualche modo sostenuto da Turchia e Giordania.

Il livello operativo sul terreno è coordinato  dalla CIA, e che il ruolo degli USA anche in questo caso non sia marginale lo prova l’incontro in Siria - nel maggio 2013 - tra gli uomini di Al-Baghdadi e il senatore USA John Mc Cain, che da Obama viene incaricato di dirigere politicamente le missioni d’intelligence nell’area.

La polemica di cui fin troppo si è scritto tra ISIS, Al-Queda, Al Nusra e Esercito Libero Siriano è derivata da due diverse visioni circa il chi e il come combattere. Mentre Al-Queda ritiene di dover individuare nell’Occidente il nemico esclusivo e di chiamare a raccolta nella Jihad ogni musulmano, l’ISIS fa della guerra agli sciiti una parte decisiva della sua volontà di supremazia nell’Islam. Da questo dissenso ne sono poi derivati altri circa la strategia della guerra contro il governo siriano e anche sulle politiche predatorie che Al Baghdadi impone nei territori sotto il suo controllo, che vengono spremuti come fossero un protettorato in attesa di diventare parte del suo Califfato.

Insomma, questi ed altri elementi di dissenso interno hanno spinto a gonfiare le presunte divisioni interne, ma l’escalation delle operazioni in Iraq, parallelamente al mutamento a favore del governo siriano delle sorti della guerra, li hanno ora spinti a mettere in secondo piano le differenze di vedute tattiche per seguire il comune disegno strategico.


Le truppe dell’ISIS contano oggi con migliaia di uomini e di importanti risorse finanziarie, ma sono tutt’altro che invincibili. Basterebbero decise azioni di commandos e il blocco dei rifornimenti da parte dei migliori amici di Washington (Qatar e Arabia Saudita in primo luogo). Ma nonostante le indignazioni ufficiali, le dichiarate disponibilità di tutti, i passi sarenno limitati e lenti. Si preferisce assistere all'avanzata dell'ISIS e si spera che i reparti scelti iraniani già operativi di cui tutti fanno finta di non sapere ma a cui tutti devono dire grazie) li blocchino al Nord e che i peshmerga curdi facciano altrettanto almeno limitatamente al loro territorio.

Perchè a Washington il gioco è scappato di mano e il nuovo protagonismo militare iraniano in Iraq, come quello dei suoi alleati storici di Hezbollah in Libano e in Siria, rischia di portare il mondo a dover riconoscere il ruolo di Teheran come interlocutore regionale. E questo a Tel Aviv, e dunque anche Washington, non piace nemmeno un po’.

Cosa fare dunque? Il nemico del mio nemico è in qualche modo un amico e l’ISIS - non c'è dubbio - combatte contro Teheran e Damasco. E allora non vi sono dubbi che a Washington si chiedano se davvero vada distrutto o se basti un'azione limitata per recuperarne una futura utilità. Magari con una sigla nuova, ma con il solito lavoro.

In vista della guerra permanente con la quale l’economia si tiene, l’impero si amplia e la leadership globale si consolida, la distruzione dell'ISIS o comunque lo si chiamerà di un esercito islamico che agisce agli ordini delle ambizioni egemoniche saudite nel Golfo Persico e nel resto del Medio Oriente, non è detto sia utile al disegno imperiale.

Certo, se non verranno fermati potrebbero determinare una divisione in tre parti dell’Iraq, ma in fondo era il progetto dell’Amministrazione Bush che prevedeva una parte per i sunniti, una per gli sciiti e una per i curdi. E dunque, se Al Baghdadi o chi per lui riuscisse ad imporre un simile status, davvero risulterebbe così controproducente? Il raggiungimento degli obiettivi di domani renderebbe così sconvenienti le loro azioni di oggi?

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