di Marco Dugini

Con un discorso della serie “compagne e compagni”, Wu Bangguo, dinnanzi al Comitato permanente della conferenza consultiva politica del popolo cinese, da lui presieduto, ha sancito ufficialmente l’avvio di una terza rivoluzione che cambierà per l’ennesima volta il volto della Cina. Perché nel paese asiatico ogni serio cambiamento ha una dimensione così enorme in termini di ricaduta materiale, che la parola riforma sembra così minuta e timida al suo cospetto. E così dopo la “rivoluzione culturale” di Mao, fallita nel suo volgere in estremismo nichilista, e dopo la restaurazione burocratico-moderata di Deng Xiaoping, che con il suo celebre discorso alla fine degli anni settanta “arricchirsi è glorioso” inaugurò il modello di capitalismo-rosso calato dall’alto con piccole riforme economiche, ecco che il nuovo Presidente Hu Jintao si è impegnato nel far approvare dal Politburo la decisione del Comitato centrale del Pcc, che impegna la Cina verso il progetto di edificazione di una “società armoniosa socialista” entro il 2020. Oltre lo slogan e le considerazioni di prammatica, il testo della decisione finale assunta dal Politburo non è rituale o di poco conto.
Nei fatti, per la prima volta in Cina, si decreta in termini dolci e incruenti il passaggio dal modello dengista, a quello nuovo voluto da Hu Jintao, che ammette indirettamente l’esistenza di una serie di problemi in seno allo società cinese, e cerca di porvi rimedio in un frangente qui definito “cruciale”.

“Occorre risolvere le questioni di interesse delle masse popolari” - ha detto Wu Bangguo - “nell'ambito del lavoro concreto occorre portare avanti con impegno le cause sociali, promuovere la parità e la giustizia sociale, costruire una civiltà armoniosa, perfezionare l'amministrazione sociale, rafforzare la vitalità creativa della società, imboccare la strada dell'arricchimento comune e promuovere lo sviluppo coordinato della costruzione sociale, economica, politica e culturale, cercando di costituire un contesto di armonia sociale per cui ciascuno lavora secondo le proprie capacità e guadagna in base al proprio lavoro.”

In antitesi con l’esistente, tutto ciò assume le dimensioni di una serie di possenti riforme da attuare per sradicare le storture economiche, sociali e burocratiche, create dal capitalismo di Stato a direzione comunista di questi anni, che ha visto la Cina accrescere enormemente la sua produzione nazionale (oltre il 10% l’anno), ma a vantaggio di una minoranza e, questo, in un contesto di gravi assenze di diritti sociali per la maggior parte dei lavoratori oltre che in totale assenza di libertà politiche.

Se la riforma del sistema politico, che ora è a partito unico, non fa certo perdere il sonno alla dirigenza cinese, il Pcc sa bene che i gravi squilibri sociali prodotti e accelerati dalla imperiosa e forsennata accumulazione di capitale degli ultimi anni, rischiano invece di far implodere tutto il sistema, vittima di profonde contraddizioni interne.

Cosicché per la dirigenza cinese è ormai divenuto indispensabile darsi un tempo di 15 anni per realizzare il più grande welfare state del mondo, previdenza sociale, sanità alla portata di tutti, e persino ampliare i margini di potere dei sindacati, fino ad ora “ufficiali” ed imbelli.
Insomma, pare proprio che la Cina rossa (ma perlopiù in termini oleografici) stia seguendo con passi da gigante, incredibili in un paese di più di un miliardo di anime, e resi possibili dall’autoritaria guida del Partito comunista, la stessa strada compiuta dalle società europee nei due secoli passati: in primis il capitalismo ottocentesco in cui vige la legge del più forte, per poi giungere infine ad uno Stato sociale tale da poter redistribuire le ricchezze prodotte ed armonizzare la società.

Ce n’è anche per la classe di burocrati corrotti, irremovibili e incrostati nei loro ruoli, fin da quando questi hanno debellato le guardie rosse e imbalsamato Mao nel ruolo o logo globalizzato di Padre della nazione, ricollocando la sua storia in una meta per turisti, con gli oppositori di sinistra perseguitati nelle campagne e gli organi del “quartier generale” perfettamente normalizzati.
Ultimamente, invece, si segnalano sempre più frequentemente le teste cadute di qualche corrotto podestà locale, ipocritamente stigmatizzato dalle corrotte autorità centrali. Ancora contraddizioni.

In ogni caso questo insieme di riforme in senso progressista, perseguite dalla dirigenza cinese, ha fino ad ora marciato ad un passo molto più lento rispetto alle riforme economiche; questo anche per colpa di un contesto di assenza del conflitto sociale e d’inquadramento della popolazione sotto la macchina di propaganda nazionale.

Già nel 1993, un più giovane Hu Jintao aveva lanciato un nuovo modello alternativo a quello dengista e più sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico. Nell’occasione di quel congresso ebbe a dichiarare: “La crescita economica non è il nostro unico obiettivo. Noi puntiamo a bilanciare la crescita, gli sviluppi politici e le conquiste sociali". Concetto assai diverso da quello di Deng, il cui motto era: “Non importa di che colore è il gatto, l'importante è che mangi il topo”.

Di topi forse ne sono stati catturati diversi negli ultimi anni, ma il gatto è sempre stato lo stesso, ormai ingrassato ai danni dei suoi simili. Forse per scongiurare una prossima instabilità dell’intero sistema, Hu Jintao, con accresciuta autorità all’interno del partito, ha deciso di darsi un tempo di 15 anni per rendere sostenibile per tutta la popolazione lo sviluppo del Paese.

“Ci sono molti problemi e conflitti che colpiscono l’armonia sociale”, recita uno studio del Comitato centrale, “il nostro partito deve essere più attivo nel riconoscere e risolvere queste contraddizioni.” Viste le tante possibili resistenze e l’attitudine burocratica ormai consolidata in una buona parte del partito, c’è da sperare che il tutto non resti lettera morta.

Ad ogni modo le contraddizioni dell’attuale capitalismo autoritario cinese, che tenta di riformarsi, sia pur dall’alto, ci ricordano del ruolo cruciale giocato nelle nostre società europee dagli autonomi movimenti operai, le cui conquiste in molti oggi vorrebbero cancellare con un tratto di penna.
E a tal proposito sarebbe curioso sapere cosa ne pensano i liberisti di casa nostra, che hanno fino ad ora plaudito acriticamente le scelte economiche della nuova dirigenza cinese, di fronte alla stessa ammissione di quest’ultima dell’esistenza di squilibri sociali di non poco conto che dovranno essere necessariamente affrontati. Magari da adesso la Cina gli risulterà meno vicina.







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