di Michele Paris

Il direttore dell’FBI, James Comey, ha confermato martedì che la sua agenzia non chiederà al Dipartimento di Giustizia di procedere con l’incriminazione di Hillary Clinton per l’uso di un server di posta elettronica privato durante il suo incarico alla guida della diplomazia americana tra il 2009 e il 2013. La decisione spazza dunque via una vicenda legale che aveva creato parecchie preoccupazioni alla candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico, anche se critiche e accuse da parte Repubblicana continueranno con ogni probabilità fino alle elezioni di novembre.

Sulla questione, il Partito Repubblicano aveva costruito un’accesa polemica politica allo scopo di colpire l’ex Segretario di Stato, senza ottenere però risultati significativi e, anzi, finendo per occultare le vere responsabilità connesse alla natura criminale della politica estera di Washington.

Hillary era stata sentita sabato dall’FBI, nell’ambito dell’indagine su una pratica proibita da anni dalle regole del Dipartimento di Stato, le quali impongono che tutta la corrispondenza del Segretario e del suo staff transiti su server governativi, sia per questioni di sicurezza sia per garantire la conservazione di quelli che vengono considerati come documenti pubblici.

Sul contenuto dell’interrogatorio della favorita nella corsa alla presidenza non era trapelato nulla sulla stampa americana, ma molti esperti legali negli USA ritenevano improbabile una sua incriminazione da parte dell’FBI. Più che una violazione della legge, la creazione di un server privato andava infatti contro una norma interna fissata dal Dipartimento di Stato

L’intervento pubblico del numero uno dell’FBI non ha comunque assolto la Clinton da un comportamento censurabile. L’ex Segretario di Stato potrebbe aver violato “statuti relativi alla gestione di materiale classificato”, ma, alla luce dei risultati dell’indagine, “nessun procuratore avvierebbe ragionevolmente un procedimento” nei suoi confronti.

Un’incriminazione federale avrebbe potuto avere luogo principalmente in due casi, se Hillary avesse mentito agli investigatori o, in maniera più grave, se informazioni riservate fossero finite nelle mani di terzi deliberatamente o per negligenza. Quest’ultima accusa è tuttavia molto difficile da dimostrare.

Le reazioni dei leader Repubblicani non si sono fatte attendere. Il candidato alla Casa Bianca, Donald Trump, su Twitter ha scritto che “il sistema è truccato”, chiedendosi la ragione per cui l’FBI non abbia raccomandato l’incriminazione di Hillary nonostante il comportamento illegale ammesso da Comey. Il presidente della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, ha anch’egli ribadito questo concetto, definendo un “precedente inquietante” lo scagionamento dell’ex Segretario di Stato.

Sul caso hanno pesato ovviamente anche considerazioni di natura politica. Il direttore dell’FBI è un Repubblicano e ha servito nell’amministrazione di George W. Bush, ma ampie sezioni dell’apparato della sicurezza nazionale americana vedono con favore l’ipotesi di una vittoria di Hillary Clinton nelle elezioni di novembre, viste le sue credenziali da “falco”, mentre temono l’imprevedibilità e le posizioni isolazioniste di Donald Trump.

Sulla raccomandazione dell’FBI per l’eventuale incriminazione di Hillary avrà l’ultima parola il ministro della Giustizia (“Attorney General”), Loretta Lynch, nominata da Obama e strettamente legata al clan Clinton, a cui deve il lancio della sua carriera legale e politica. La Lynch aveva però già fatto sapere che era sua intenzione rispettare la decisione dell’FBI, rispondendo così alle polemiche seguite a un suo incontro privato settimana scorsa con l’ex presidente Bill Clinton all’aeroporto di Phoenix, in Arizona.

Se anche Hillary e i suoi sostenitori hanno assicurato che la decisione di ricorrere a un server di posta privato era stata un errore, le notizie emerse sulla vicenda in questi mesi hanno gettato molte ombre su una candidata che già non si distingue per onestà e integrità.

Un rapporto interno al Dipartimento di Stato, pubblicato qualche settimana fa, aveva accusato duramente l’ex senatrice di New York. Hillary aveva ad esempio affermato di avere chiesto al Dipartimento di Stato l’autorizzazione all’uso di un proprio dominio per la posta elettronica, mentre in realtà tale richiesta non sarebbe mai avvenuta, poiché in tal caso sarebbe stata fermamente respinta.

Da ricordare c’è anche il fatto che Hillary ha messo a disposizione delle indagini circa 30 mila e-mail, ma quasi altrettante sono state eliminate, ufficialmente perché di natura privata. In molti dubitano legittimamente della parola della Clinton e, a conferma di ciò, la settimana scorsa la sua più stretta collaboratrice, Huma Abedin, ha ammesso in un’aula di tribunale che, “in più di un’occasione”, erano state eliminate insolitamente anche copie dell’agenda giornaliera del Segretario di Stato, da considerarsi evidentemente come documenti pubblici.

Hillary è riuscita dunque a evitare una clamorosa incriminazione in seguito all’indagine dell’FBI, ma rimarranno comunque aperti vari procedimenti civili intentati da organizzazioni conservatrici che, prevalentemente per ragioni politiche, hanno chiesto la pubblicazione della corrispondenza tenuta negli anni al Dipartimento di Stato.

Queste grane legali hanno senza dubbio contribuito a peggiorare la percezione della Clinton tra gli americani. Un recente sondaggio ha mostrato infatti che la candidata Democratica alla Casa Bianca è considerata ancora più disonesta e inaffidabile di Donald Trump.

Il dato più rilevante delle vicende che stanno interessando Hillary Clinton ha comunque a che fare con responsabilità ben più gravi di quelle emerse e utilizzate per calcoli politici dal Partito Repubblicano. Dalle e-mail del Dipartimento di Stato è ad esempio risultato che Hillary Clinton ha avuto un ruolo diretto nell’approvazione di assassini mirati condotti con i droni in Pakistan, così come sono state confermate le sue responsabilità nell’intervento militare in Libia nel 2011 per rovesciare il regime di Gheddafi.

In entrambi i casi vi sarebbe ampio spazio per perseguire per crimini di guerra l’ex Segretario di Stato, assieme a molti altri esponenti delle amministrazioni Bush e Obama, i vertici militari e dell’intelligence USA. Com’è ovvio, né le indagini dell’FBI e della maggioranza Repubblicana al Congresso, né le denunce dei vari gruppi conservatori sono interessate a questo aspetto cruciale dei casi in questione.

La ragione di ciò è da ricercare nelle responsabilità per i crimini dell’imperialismo americano dell’intera classe politica USA, tutt’al più interessata a perseguire eventuali violazioni dei vincoli di segretezza posti sui documenti che testimoniano di questi stessi crimini piuttosto che le azioni e le responsabilità a essi collegate.

Identica evoluzione ha avuto così anche un’altra vicenda che ha visto coinvolta Hillary Clinton negli ultimi anni, quella cioè legata all’assalto alla rappresentanza diplomatica USA di Bengasi che l’11 settembre del 2012 si concluse con la morte dell’ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini statunitensi incaricati del servizio di sicurezza.

Sull’attentato era stata creata una speciale commissione d’indagine della Camera dei Rappresentanti di Washington, dotata di fondi straordinari. Anni di ricerche e interviste hanno dato alla luce un rapporto finale di oltre 800 pagine.

Anche in questo caso, l’obiettivo della maggioranza Repubblicana era quello di indebolire politicamente Hillary Clinton, facendo emergere particolari responsabilità dell’allora Segretario di Stato nell’implementazione di misure di sicurezza insufficienti per la protezione del consolato USA nella città libica. Come previsto, nulla di tutto ciò è stato però evidenziato dall’indagine, mentre alcune questioni di fondamentale importanza emerse sulla natura criminale dell’operazione militare in Libia sono state puntualmente ignorate.

In primo luogo vi è l’utilizzo da parte americana di milizie fondamentaliste, alcune con legami diretti ad al-Qaeda, per la rimozione di Gheddafi. Queste stesse forze hanno condotto l’attacco al consolato di Bengasi, uccidendo l’ambasciatore Stevens, ovvero uno dei principali responsabili della gestione dei rapporti con i guerriglieri jihadisti.

Dal rapporto del Congresso risulta poi chiara la creazione di una rotta tra la Libia e la Siria da cui la CIA, che operava da una struttura annessa al consolato di Bengasi, facilitava il transito di armi e combattenti fondamentalisti per replicare a Damasco le stesse operazioni volte al cambio di regime messe in atto a Tripoli.

Niente di tutto questo è finito al centro di un qualche dibattito negli ambienti ufficiali di Washington, dove le azioni dei militari, del Dipartimento di Stato e della CIA sono considerate interamente legittime.

Oltre a tralasciare volutamente questi aspetti di gran lunga più importanti rispetto alla trascurabile questione delle responsabilità sulle misure adottate dal Dipartimento di Stato per la sicurezza delle rappresentanze diplomatiche USA all’estero, le iniziative dei Repubblicani non sono nemmeno riuscite a far naufragare la campagna elettorale di Hillary Clinton.

Anzi, se anche la già modesta popolarità della contendente Democratica alla Casa Bianca ne ha in qualche modo risentito, l’esito delle indagini ha offerto a quest’ultima un facile bersaglio per le sue contro-accuse circa l’esistenza di una cospirazione ai suoi danni negli ambienti della destra americana.

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