di Michele Paris

Con un intervento pubblico a fianco del capo del Pentagono e di quello delle forze armate degli Stati Uniti, mercoledì il presidente Obama ha annunciato una decisione sull’Afghanistan che è la logica conseguenza dell’evolversi della situazione nel paese occupato in questi ultimi anni. Il processo di riduzione del numero dei soldati americani impiegati in Afghanistan sarà cioè drasticamente rallentato rispetto ai piani originari della stessa amministrazione Obama, costretta a riconoscere la persistente fragilità del governo-fantoccio di Kabul del presidente Ashraf Ghani.

Obama ha parlato assieme al Segretario alla Difesa, Ashton Carter, e al capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, facendo sapere che i circa 9.800 soldati attualmente in Afghanistan non saranno ridotti a 5.500 entro il gennaio 2017, come previsto in precedenza, ma nel paese centro-asiatico ne rimarranno 8.400.

La decisione accoglie in gran parte le richieste dei vertici militari USA e, come ha spiegato lo stesso Obama mercoledì, assicura al prossimo presidente “solide basi per i continui progressi dell’Afghanistan, così come la flessibilità [necessaria] a far fronte all’evoluzione della minaccia terroristica”.

Per meglio dire, la Casa Bianca e il Pentagono, preso atto del deteriorarsi della situazione in Afghanistan e del riallineamento strategico in corso nella regione, hanno fatto marcia indietro sulle promesse dei mesi scorsi, in modo da rendere più semplice per il successore di Obama una possibile nuova escalation militare e l’implementazione dei piani per un’occupazione permanente.

Il ripensamento di Obama sul numero di truppe da mantenere in Afghanistan era stato previsto da molti, soprattutto dopo che meno di un mese fa egli stesso aveva autorizzato nuove regole d’ingaggio, assegnando alle forze aeree e di terra la facoltà di prendere parte ai combattimenti contro i Talebani dell’esercito regolare afgano e non solo delle Forze Speciali indigene.

Ugualmente previsto era il tempismo dell’annuncio di Obama, arrivato due giorni prima dell’apertura di un summit cruciale della NATO a Varsavia. Nella capitale polacca, oltre a decidere il dispiegamento di migliaia di truppe nei paesi dell’Europa dell’est che confinano con la Russia, gli Stati Uniti utilizzeranno il loro rinnovato impegno in Afghanistan per convincere gli altri paesi che partecipano all’occupazione a fare anch’essi di più nei prossimi mesi.

Come spesso accade nei suoi interventi pubblici, anche mercoledì Obama è sembrato sottovalutare l’intelligenza degli americani, affermando assurdamente che gli Stati Uniti non sono più impegnati in una guerra di ampia portata con forze e offensive di terra in Afghanistan. Contraddendo anche le direttive emanate dalla sua amministrazione, il presidente ha parlato soltanto di “consiglieri”, di compiti di “addestramento” dell’esercito afgano e di “supporto” alle operazioni anti-terrorismo.

Obama e Carter hanno poi fatto riferimento alle precarie condizioni delle forze di sicurezza afgane e alla necessità di impedire che il paese, dove sarebbero penetrate anche cellule dello Stato Islamico (ISIS), diventi ancor più terreno fertile per il terrorismo. Oltre al fatto che sia i Talebani sia al-Qaeda sono il prodotto delle politiche americane in Afghanistan fin da prima dell’invasione sovietica, sono l’occupazione stessa che dura dal 2001, la repressione di qualsiasi opposizione ai governi corrotti di Kabul installati da Washington e le manovre strategiche messe in atto per garantirsi una presenza prolungata nella regione ad avere contribuito in maniera decisiva alla continua destabilizzazione e al disastro economico-sociale di questo paese.

Le modalità e i tempi con cui l’amministrazione Obama e il Pentagono hanno proceduto per arrivare ad annunciare la decisione di mantenere 8.400 soldati in Afghanistan almeno fino all’inizio del prossimo anno la dicono lunga sulle loro intenzioni.

Per cominciare, una decisione che era con ogni probabilità già stata presa da tempo è giunta per gradi a partire dalla fine del 2014, quando Obama fece la promessa fuorviante di mettere fine alle operazioni di combattimento in Afghanistan. In seguito sono arrivate varie modifiche ai piani di disimpegno, tutte giustificate con la necessità di adattare lo sforzo USA alla situazione sul campo, in continuo peggioramento negli ultimi anni.

La guerra che Obama aveva promesso di portare a termine quando vinse le elezioni nel 2008 sarà così ancora in pieno svolgimento alla fine del suo secondo mandato otto anni più tardi. Anzi, come già anticipato in precedenza, da tempo le manovre americane in atto indicano un’ulteriore espansione del conflitto nel prossimo futuro.

La vicinanza delle elezioni di novembre impone però il ricorso a stratagemmi retorici che nascondano le vere intenzioni del governo e dei militari, fondamentalmente determinati a rimanere a lungo in un paese che occupa una posizione cruciale in un’area del pianeta dove si intrecciano interessi economici e strategici di importanza enorme per il capitalismo americano e la sua influenza in netto declino.

Ben lontani dall’essere in grado o dall’avere intenzione di trovare una via d’uscita pacifica dall’Afghanistan, vista anche l’impossibilità di raggiungere una soluzione diplomatica con i Talebani e le altre potenze regionali che salvaguardi gli interessi USA, il governo e i militari americani minacciano se mai di estendere ancor più il caos ai paesi vicini.

Il Pakistan, ad esempio, rischia seriamente di essere trascinato del tutto in un conflitto per il quale ha già pagato e continua a pagare un prezzo di sangue altissimo. Messo all’angolo dall’evoluzione della partnership indo-americana, il Pakistan sta guardando sempre più alla Cina per la tutela della propria sicurezza e dei propri interessi economici.

Ciò ha aggravato le tensioni già esistenti con l’alleato americano, facendo aumentare le pressioni di Washington su Islamabad. Proprio in questo quadro, segnato dal rischio di allargamento della guerra, vanno considerati sia il recente assassinio con un drone americano del leader Talebano, Mullah Aktar Mansour, nella provincia pakistana del Belucistan, solitamente off-limits alle operazioni militari USA, e gli scontri armati, probabilmente fomentati dagli Stati Uniti, registrati il mese scorso al confine afgano-pakistano tra le forze armate dei due paesi vicini.

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