di Daniele John Angrisani

Solo pochi giorni fa, la Procura di Roma ha deciso di procedere con il rinvio a giudizio del militare americano, Mario Lozano, reo di aver sparato il colpo che ha ucciso Nicola Calipari sulla strada per l'aereoporto di Baghdad, mentre riportava a casa la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, da poco liberata. Come c'era da aspettarsi il Pentagono, per bocca di un suo portavoce, ha rifiutato sdegnosamente qualsiasi ipotesi di estradizione del militare, in quanto afferma che per quanto riguarda loro "l'indagine è chiusa". C’è da dire che, nonostante questo atteggiamento di chiusura totale nei confronti delle autorità italiane, ben altro è stato l'atteggiamento del nostro governo nei confronti degli americani per quanto riguarda la vicenda del Dal Molin. Eppure c'è chi, nell'opposizione, riesce ad affermare che questo governo è "antiamericano" e rovina "l'immagine del nostro Paese a livello internazionale". Bene ha fatto, a questo proposito, il ministro degli Esteri Massimo D'Alema a rispondere, su Repubblica, affermando che a volte capita di essere definiti antiamericani anche se si è d'accordo, su molte cose, con il 60% degli americani, che, come dimostrano tutti i sondaggi di opinione resi noti negli ultimi mesi, sono sempre più contrari a questa guerra. Il piano del presidente Bush per l'aumento delle truppe in Iraq, definito senza peli sulla lingua come "folle" da diversi commentatori politici, ha infatti causato un forte sentimento di contrarietà nell'opinione pubblica americana ed ha causato il crollo dell'indice di popolarità del presidente al minimo storico mai raggiunto prima da alcun inquilino della Casa Bianca, ovvero il 28% secondo le stime più pessimiste. Ciò nonostante, al momento, né il Congresso in mano democratica, né l'opinione pubblica sembrano essere in grado di fare qualcosa di effettivo ed efficace per cambiare il corso degli avvenimenti. Lo schieramento delle truppe americane addizionali in Iraq prosegue infatti senza sosta ed il 5 febbraio scorso, la maggioranza dei senatori repubblicani è riuscita, con un colpo a sorpresa e grazie ad un espediente procedurale, a far approvare una mozione per bloccare la discussione in aula su un progetto di risoluzione bipartisan, cosponsorizzato dai senatori Carl Levin (democratico) e John Warner (repubblicano), che avrebbe dovuto condannare a parole il nuovo piano di Bush. Se al Senato comunque questa risoluzione sembra per ora respinta, non è così alla Camera, dove tutto è pronto per la votazione (e la quasi sicura approvazione, a meno di sorprese dell’ultimora) di una risoluzione dall’intento molto simile.

Nonostante questa presa di posizione eventuale possa essere molto importante dal punto di vista politico, la vera discussione è ancora di là da venire. Il vero peso delle forze in campo, nonché il coraggio politico dei diversi schieramenti, si vedrà solo al momento della decisione sull'aumento delle spese per i militari in Iraq, l'unico vero mezzo di pressione che il Congresso ha nei confronti del presidente per costringerlo a ritornare sui suoi passi. E' chiaro che un eventuale voto contrario da parte del Congresso al rifinanziamento delle truppe così come richiesto dalla Casa Bianca, sarebbe un evento straordinario per la vita politica americana che potrebbe avere un effetto potenzialmente devastante sulla prossima campagna elettorale presidenziale. I democratici sanno fin troppo bene che la loro fortuna politica dipende sostanzialmente dall'andamento della guerra e non vogliono passare per coloro che hanno affossato definitivamente le speranze americane tagliando i fondi alle truppe. D'altro canto però, non possono neppure fare a meno di compiere ciò per cui sono stati votati in massa dagli americani nelle elezioni dello scorso novembre, ovvero cercare una via d'uscita il più dignotosa possibile per gli Usa al disastro iracheno.

Anche per questo motivo la situazione politica americana è talmente complessa da arrivare a veri e propri paradossi, come quando alcuni giorni or sono - a stragrande maggioranza - il Senato ha approvato la nomina di George Casey a capo di Stato Maggiore dell'Esercito Americano. Nonostante l'opposizione democratica alla strategia militare di Bush, i democratici si sono trovati infatti nella situazione di dover difendere Casey dalle accuse di alcuni senatori repubblicani, guidati dal probabile futuro candidato presidente John Mc Cain, che lo hanno accusato di aver compiuto pesanti errori di gestione quando era a capo delle truppe militari americane in Iraq. Alla fine a favore della nomina di Casey hanno votato 44 senatori democratici, 37 repubblicani e due indipendenti, mentre 10 senatori repubblicani e 4 democratici hanno votato contro. Spiegando la posizione dei democratici, il senatore Carl Levin, presidente della Commissione del Senato sulle Forze Armate, ha affermato che "il generale Casey conosce bene l'Iraq e le sfide del nostro esercito in quel Paese" e che "le politiche fallimentari che hanno portato il caos in Iraq non sono state decise dai militari, ma dalla leadership civile", ovvero dalla Casa Bianca.

A ben vedere però, il risultato di tutti questi giochi politici comincia ad essere alquanto disarmente per coloro che hanno creduto in un qualche tipo di cambiamento dopo la vittoria dei democratici. A distanza di 4 mesi dalle elezioni di “mid term”, coloro che hanno guidato la disastrosa campagna militare in Iraq vengono promossi, mentre in Iraq le persone innocenti muoiono come e più di prima e non si vede all'orizzonte alcuna reale risoluzione della crisi irachena. E’ vero che è ancora troppo presto per dare giudizi ma forse è vero che spesso tutto cambia affinché nulla cambi realmente. I prossimi mesi ci diranno se questo pessimismo è fondato nella realtà, oppure se vi sono reali prospettive di uscita da questa crisi che non sembra aver mai fine.



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