di Luca Mazzucato

L'accordo raggiunto alla Mecca tra i leader di Hamas e Fatah rappresenta un passo di fondamentale importanza per allontanare definitivamente lo spettro della guerra civile dai Territori Occupati. Il re saudita Abdullah ha messo sul tavolo il proprio prestigio - e soprattutto i propri petrodollari - per costringere Khaled Mash'al, leader di Hamas, e Mahmoud Abbas, il presidente palestinese e leader di Fatah, a deporre le armi e creare un governo palestinese di unità nazionale. Questo inaspettato accordo potrebbe essere il primo segnale di una svolta nel conflitto e segnala la definitiva sconfitta della politica israeliana di isolamento dell'ANP e una rivincita sunnita contro la crescente influenza iraniana nell'area. Nelle ultime settimane le tensioni nei Territori stavano culminando in una vera e propria guerra civile, quando le due università nella Striscia di Gaza venivano date al fuoco dalle fazioni rivali. Ad ogni angolo di strada militanti armati allestivano check-point improvvisati e le famiglie palestinesi non mandavano più i figli a scuola, per paura dei continui scontri a fuoco, che solo nell'ultima settimana hanno visto la morte di centotrenta palestinesi. In questo clima drammatico, il re saudita ha invitato i leader di Fatah e Hamas a recarsi in pellegrinaggio alla Mecca, per raggiungere un accordo sotto il suo patrocinio. Non potendo rifiutare l'invito, nonostante il recente incontro fallito tra Abbas e Masha'al a Damasco (sotto la protezione di Bashar Assad), le due delegazioni palestinesi si sono recate nella città santa saudita sapendo che questa era l'ultima possibilità per evitare di precipitare nel baratro. Dopo due giorni di negoziati serrati, Abbas e Mash'al hanno infine firmato un accordo in mondovisione, di fronte al raggiante re Abdullah, che prevede i seguenti punti: un nuovo governo di unità nazionale sostituirà l'attuale governo Hamas; l'attuale premier Haniyeh continuerà a guidare il governo ma verrà affiancato da un vicepremier di Fatah; Hamas avrà nove ministeri, Fatah sei e gli altri partiti quattro; i ministeri chiave dell'interno, delle finanze e degli esteri verranno affidati a degli indipendenti. Un altro punto cruciale del negoziato è che il nuovo governo dovrà rispettare i precedenti accordi sottoscritti dall'OLP, implicitamente riconoscendo dunque Israele, anche se non ne sarà vincolato. Quest'ultima clausola rappresenta il difficile compromesso diplomatico tra Hamas, che non vuole riconoscere ufficialmente lo stato ebraico, e le posizioni occidentali, che chiedono un segnale di cambiamento al movimento islamico per poter rimuovere l'embargo economico nei confronti dell'ANP.

Il retroscena che ha reso possibile l'accordo, laddove tutti gli altri leader della regione hanno fallito, è stata la promessa del re saudita di donare un miliardo di dollari al futuro governo palestinese. Questo enorme finanziamento avrebbe indotto i due contendenti a deporre le armi e sedersi allo stesso tavolo. L'entrata in scena del regime saudita, a questo punto del conflitto e in modo così pesante, segnala una prima svolta nei rapporti di forza in Medioriente. Nei regimi arabi filoamericani dell'area serpeggia la paura per la crescente egemonia sciita iraniana. Negli ultimi mesi, il presidente iraniano Ahmadinejad sta cercando di estendere la sua influenza dal Libano alla Palestina, con generose donazioni al governo Hamas, mentre alle generiche parole di solidarietà degli emiri sunniti non è seguito nessun aiuto concreto. Con l'accordo della Mecca, il re saudita ha messo in chiaro che il conflitto israelo-palestinese deve rimanere una questione araba e sembra premere per una nuova unità di tutti i paesi arabi sunniti nelle relazioni con Israele, dopo l'adozione da parte di Hamas dell'iniziativa di pace della Lega Araba del 2002, proposta dal re saudita.

Lo scontro fratricida degli ultimi mesi stava portando al disastro la situazione nei Territori, sotto gli occhi soddisfatti dell'esercito israeliano, mentre la popolazione di Gaza rimaneva imprigionata in casa e perdeva fiducia nei propri leader. L'accordo della Mecca rappresenta anche un'uscita dall'impasse per entrambe le fazioni palestinesi. In primo luogo, Hamas ha dimostrato il fallimento di un anno di embargo occidentale e del successivo tentativo di golpe da parte di Fatah, finanziato dall'amministrazione americana e dal governo Olmert. Ad un anno dalle elezioni palestinesi del 2006, il movimento sunnita ha vinto la prova di forza senza arretrare di un passo rispetto al proprio progetto di resistenza. Dall'altro lato, Abbas è riuscito a sbloccare l'autarchia del governo Hamas ed è sicuro di poter convincere l'Unione Europea a riaprire i rubinetti degli aiuti umanitari. Le reazioni internazionali all'annuncio del nuovo governo di unità nazionale sono state, com'è ovvio, molto caute. Il premier israeliano Olmert ha dichiarato subito che non cambierà nulla, a meno che il nuovo governo non riconosca esplicitamente Israele e venga vincolato agli accordi di Oslo (accordi che, peraltro, il governo israeliano viola quotidianamente).

Non è chiaro se l'Europa manterrà una posizione unitaria a riguardo, oppure se alcuni stati riconosceranno il nuovo governo mentre altri si adegueranno alla posizione israeliana. L'amministrazione americana, infine, si trova in forte imbarazzo: da una parte non può riconoscere il nuovo governo, il cui premier rimane un membro di Hamas, ma dall'altro lato non può nemmeno rifiutare il riconoscimento, dato che l'accordo è stato creato dal principale alleato americano nell'area, il regime saudita. In ogni caso, il coinvolgimento non solo formale ma sostanziale e finanziario del re saudita e dei paesi arabi, in prospettiva, sta riducendo significativamente la storica influenza occidentale sulle organizzazioni palestinesi. In questo caso dunque, la politica dell'embargo economico sta producendo risultati esattamente opposti a quelli sperati dalle potenze occidentali.

Ma c'è un'altro risultato positivo dell'accordo della Mecca: per la prima volta nella storia del conflitto israelo-palestinese, le due ali della resistenza palestinese, quella laica-moderata di Fatah e quella islamica-radicale di Hamas, sembrano convergere, invece di combattersi a vicenda. Questo scenario potrebbe rappresentare un nuovo motivo di preoccupazione per il governo israeliano, proprio nei giorni in cui un nuovo focolaio di rivolta si sta sviluppando a Gerusalemme Est. Recentemente, l'amministrazione israeliana della città ha iniziato alcuni lavori di ristrutturazione nella città vecchia, con bulldozer e ruspe proprio a ridosso della spianata delle moschee, il terzo luogo più sacro al mondo per la religione islamica. Le autorità musulmane locali non sono state avvertite e violenti scontri si stanno verificando quotidianamente in tutta la città, con la partecipazione sia di ragazzi palestinesi che di giovani arabi-israeliani. Le proteste si sono poi estese a tutti i paesi arabi. Tuttavia, a dispetto delle richieste ufficiali della Lega Araba di bloccare i lavori, Olmert, appoggiato dalla comunità ultraortodossa locale, ha deciso di proseguire con gli scavi come se nulla fosse, scortando gli operai con cinquecento poliziotti in assetto di guerra. Questo nuova ondata di proteste, causate dall'insensibilità del governo Olmert, potrebbe rappresentare l'occasione per Fatah e Hamas di rinserrare i ranghi contro l'esercito israeliano, dopo mesi di scontri fratricidi.

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