È difficile valutare se l’assassinio mirato del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad sia da considerarsi un atto più sconsiderato o più criminale da parte degli Stati Uniti. Quel che è certo è che l’operazione, autorizzata direttamente dal presidente Trump, alza ulteriormente il livello di criminalità della condotta internazionale di Washington e, nel contempo, fa aumentare in maniera vertiginosa il rischio di una conflagrazione senza precedenti nella regione mediorientale. Assieme a Soleimani, il blitz americano ha ucciso il vice-comandante delle Unità di Mobilitazione Popolare, Abu Mahdi al-Muhandis, le forze sciite irachene.

Sul piano giuridico, aver ordinato l’assassinio di Qesam Soulemani pone il Presidente Trump nel non invidiabile ruolo di criminale internazionale, dal momento che far uccidere il numero 3 di un Paese con il quale non si è in guerra, equivale ad una azione di terrorismo puro e semplice.
Sessantadue anni, dal 1998 Soleimani era il numero uno delle “Forze Quds”, reparto d’élite dei Guardiani della Rivoluzione operante prevalentemente all’estero, ed è stato regista di tutte le operazioni militari persiane nell’intero Medio Oriente ed Asia Minore. Autorevolezza personale e sapienza militare, Soleimani è stato una figura di primissimo piano per la rivoluzione iraniana.
Carismatioa in patria, ha accompagnato la crescita dello stato sciita nel puzzle musulmano: dal Libano alla Siria, allo Yemen, Soleimani è stato per Teheran scudo e avanguardia militare e, nello stesso tempo, tessitore politico di primissimo livello. E' stato artefice, insieme a russi, Hezbollah ed esercito siriano, della sconfitta dello stato islamico e della cacciata dei mercenari dalla Siria. Nel dialogo tra Russia, Iran e Turchia, che tentano di superare gli equilibri a guida israelo-saudita-statunitense nel governo della regione, Soleimani è stato riferimento importantissimo.
L’assassinio era stato in qualche modo annunciato dagli Stati Uniti, con voci di un’operazione imminente che circolavano da qualche giorno sui media israeliani e non solo. Il generale persiano era l’obiettivo principale dell’offensiva contro Teheran, perché considerato in Occidente - e soprattutto negli Stati Uniti – artefice principale della strategia di espansione iraniana in Medio Oriente. La retorica del Pentagono e della Casa Bianca indicava a sua volta un’iniziativa clamorosa in fase di studio contro l’Iran, malgrado la regola non scritta nei rapporti internazionali che evita di prendere di mira i vertici militari o dell’intelligence anche di paesi nemici. Trump ha rotto questa consuetudine e, da ora, nessuno dei vertici delle diverse intelligence coinvolte potrà ritenersi al sicuro.
La provocazione con cui l’amministrazione Trump ha deciso di aprire il nuovo decennio rappresenta dunque un atto irresponsabile che dimostra come potenti forze all’interno del governo e dell’apparato militare degli Stati Uniti, così come tra i loro alleati, intendano andare verso un confronto militare diretto con l’Iran.
La volontà politica di attaccare Teheran, del resto, era stata già chiara quando Trump decise di ritirare la firma statunitense dall’accordo 5+1 sul nucleare iraniano e già nell’occasione si capì come il egli fosse completamente ostaggio di Ryad e Tel Aviv. Cancellare gli accordi sul nucleare, imporre embarghi e sanzioni, serve soprattutto ad impedire il rafforzamento dell’economia iraniana e, ancor più, garantire la predominanza del petrolio saudita privo di concorrenza da parte di un paese ostile. Impedire che l’Irak possa  muovere verso una intesa con l’Iran serve a chiudere il cerchio a favore di Ryad. Ed ora, che all'accerchiamento economico e politico si aggiunge anche l’assassinio mirato di un uomo come Soleimani, sembra proprio che il progetto israelo-saudita di creare una nuova, spaventosa guerra mediorientale, stia andando in porto.
Ma la strategia irachena degli USA per colpire la Repubblica Islamica rischia seriamente di ritorcersi contro la stessa Casa Bianca. Proprio nel teatro iracheno, infatti, l’assassinio di Soleimani potrebbe fare esplodere definitivamente le frustrazioni diffuse tra la società e una parte significativa della classe dirigente irachena, con conseguenze tutt’altro che favorevoli per Washington. Il risultato finale potrebbe essere una mobilitazione del paese mediorientale contro la stessa presenza militare americana. Dopo la morte di Soleimani, infatti, il premier Mahdi ha definito il raid niente meno che una “aggressione” contro l’Iraq e una “seria violazione” delle condizioni che regolano la presenza USA nel suo paese.
Il Parlamento di Baghdad è stato inoltre convocato d’urgenza e non è da escludere che possa deliberare l’espulsione del contingente militare USA dal paese, dato che la classe dirigente irachena teme fortemente l’eventualità sempre più probabile di un conflitto USA-Iran combattuto entro i propri confini. E seppure le decisioni del governo di Baghdad hanno poche possibilità di essere concretizzate nei confronti degli Stati Uniti, è altrettanto vero che il radicalizzarsi dell’ostilità verso Washington renderebbe inevitabile il ricorso a una sorta di nuova complicatissima occupazione per potere utilizzare l’Iraq come base di una guerra contro la Repubblica Islamica.
La questione cruciale sarà comunque la reazione iraniana all’assassinio di Soleimani. Tutte le più alte cariche del paese hanno annunciato misure durissime e proporzionate al crimine commesso dagli USA. E l’Iran non può essere sottovalutato, non è un paese qualunque. Non lo è sotto il profilo storico, politico, militare, religioso. E’ una potenza che non resterà con le mani in mano di fronte ad un attacco proditorio ai suoi più alti livelli. Dunque, deciderà il come e il quando, ma che si vendicherà si può esser certi.
L’inevitabilità di una ritorsione adeguata da parte dell’Iran prospetta poi un’ulteriore risposta degli Stati Uniti, facendo aumentare il rischio di un’escalation fuori controllo. A livello teorico, la Casa Bianca dovrebbe essere frenata dalle conseguenze disastrose di un conflitto che, come aveva dimostrato l’attacco degli Houthi a settembre contro le raffinerie saudite, potrebbe paralizzare le esportazioni petrolifere dal Medio Oriente e mettere perciò in ginocchio le monarchie del Golfo Persico alleate di Washington. Sarà bene ricordare come attraverso lo stretto di Hormutz, in territorio iraniano, passi la maggior quota di petrolio destinato al fabbisogno dell’Occidente.
In vista dell’appuntamento elettorale di novembre, inoltre, l’esplosione di una guerra con l’Iran rappresenterebbe un fardello gigantesco per Trump e le sue prospettive di successo. La possibile violazione di una delle regole fondamentali della politica USA, cioè appunto quella di evitare l’innesco di conflitti in un anno elettorale, dimostra tuttavia come l’operazione contro Soleimani risponda a esigenze di natura geo-strategica ritenute vitali dal “deep state” americano, oppure sia in primo luogo una risposta a sollecitazioni esterne provenienti da Riyadh e Tel Aviv, spesso decisive nell’orientare le scelte di politica estera della Casa Bianca al di là delle implicazioni domestiche.
Quest’ultima ipotesi appare realistica se si considera la responsabilità assunta in prima persona dal presidente Trump per l’assassinio del generale iraniano e, di conseguenza, forse non condivisa almeno da una parte dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” USA. Se è al momento difficile stabilire quali siano le forze dietro il blitz di venerdì a Baghdad, già i prossimi giorni potrebbero mostrare invece come Trump, arrivato alla Casa Bianca con la promessa di chiudere tutte le guerre in cui sono impegnati gli Stati Uniti, rischi di diventare il presidente che ha scatenato il conflitto più rovinoso per il suo paese, per il Medio Oriente e, forse, per l’intero pianeta.

 

articolo scritto in collaborazione con Michele Paris

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