La Brexit è realtà, ma per il momento rimane sulla carta. Questi sono i giorni dei proclami, delle bandiere ammainate, dei canti nostalgici: delle formalità, insomma. Per la sostanza bisognerà aspettare ancora qualche mese. La data che rimarrà sui libri di storia, comunque, è già passata: dopo 47 anni di rapporti non proprio idilliaci, dal primo febbraio 2020 il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea. Si realizza così quanto chiesto dai britannici il 23 giugno 2016, quando al referendum sulla Brexit votarono per il 52% in favore del “Leave”.

 

Ma cosa cambia nell’immediato? Poco o niente: i 73 europarlamentari di Sua Maestà tornano al di là della Manica, insieme ai tre giudici targati Uk della Corte di giustizia europea. Per il resto, Londra continua a far parte del mercato unico e dell’unione doganale, a pagare la sua quota di partecipazione alla Ue e a rispettare tutte le sue norme (ma non avrà più voce in capitolo sulle decisioni degli altri 27 Paesi).

La parte difficile inizierà a marzo, quando prenderà il via l’ennesima trattativa per definire i rapporti futuri fra Gran Bretagna e Unione europea. In teoria, il negoziato dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre, ma è già sicuro che serviranno altri rinvii. Troppe (e troppo delicate) le materie sul tavolo: dagli eventuali dazi alle regole sulla concorrenza, dalla sicurezza all’intelligence, passando per farmaci, brevetti, forniture di energia e diritti di pesca.

La battaglia negoziale si annuncia feroce. Il piano di Johnson è chiaro a tutti: fare sponda con Donald Trump (discutendo in parallelo un accordo commerciale Usa-Uk) e al contempo acquisire una rendita di posizione nei confronti del mercato unico europeo. Come? Facile: trasformando il Regno Unito in un paradiso fiscale con pochi scrupoli in materia di ambiente e di tutela del lavoro.

Il problema principale di Johnson è che si crede più furbo degli altri. Non riesce proprio a capire che, nel doppio negoziato, il Regno Unito sarà in posizione subalterna sia con gli Usa sia con l’Ue. Da una parte c’è Trump, personaggio inaffidabile più di chiunque, furibondo dopo l’accordo fra Londra e la cinese Huawei sul 5G, senz’altro determinato a chiedere una contropartita militare in Medio Oriente come pagamento per eventuali favori commerciali. Dall’altra c’è il francese Michel Barnier, che - da capo negoziale dell’Unione - negli ultimi anni non ha concesso nulla alla Gran Bretagna. Del resto, Merkel e Macron hanno chiarito in più circostanze che non hanno intenzione di fare sconti.

E infatti, anche stavolta il contrattacco è già pronto. Per scaricare la pistola in mano a Johnson, Barnier è pronto a un ricatto chiaro e semplice: i negoziati su commercio e pesca vanno chiusi per primi, altrimenti banche e assicurazioni britanniche non potranno operare in nessuno dei 27 Paesi comunitari e l’Ue non condividerà più con Londra i suoi dati di polizia e antiterrorismo. Perché proprio commercio e pesca? Il primo settore è vitale per i grandi Paesi industriali (Germania, Francia e Italia), il secondo per le economie del Nord Europa.

In questo scenario, il ripristino dei dazi è quasi certo. Per evitarlo, i britannici dovrebbero garantire il rispetto delle regole Ue in tema di aiuti di Stato, norme ambientali, fiscali, sanitarie e sociali. Un cedimento inimmaginabile per Johnson, che al contrario minaccia controlli doganali su tutte le merci in arrivo dall’Ue. Se lo facesse davvero, causerebbe ingorghi sulla manica, prezzi alle stelle nei negozi e difficoltà di produzione nelle fabbriche.

Il Premier britannico finge di non vedere che una guerra commerciale - o qualsiasi cosa ci assomigli - sarebbe certamente un danno per l’Unione, ma avrebbe conseguenze ben più drammatiche per il suo Paese, dipendente dalle importazioni in settori chiave come quello alimentare. C’è da sperare che stia bluffando. 

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