Il dipartimento della Difesa americano ha aggiunto di recente una nuova arma a “bassa potenza” al proprio arsenale nucleare che potrebbe alterare i già precari equilibri tra le principali potenze militari del pianeta e, a dispetto delle intenzioni ufficiali, provocare una conflagrazione atomica di proporzioni catastrofiche. I missili W76-2 sarebbero già stati installati a bordo di almeno una nave da guerra USA e il battesimo della loro operatività si intreccia pericolosamente alla competizione sempre più accesa tra Washington e Mosca, soprattutto per quanto riguarda il progressivo tracollo dell’impalcatura creata a partire dalle fasi finali della Guerra Fredda per limitare la proliferazione e ridurre il numero di armi nucleari a disposizione delle due super-potenze.

 

Mentre il Pentagono non ha fornito dettagli circa l’impiego dei missili nucleari a “bassa potenza”, qualche giorno fa era stata la “Federazione degli Scienziati Americani” (FAS) a sostenere, basandosi su fonti civili e militari anonime, che questi ordigni già dalla fine dello scorso anno si trovano a bordo della nave da guerra “Tennessee”, impegnata nell’oceano Atlantico.

La caratteristica dei missili W76-2 è quella di avere appunto una testata nucleare con una potenza inferiore rispetto allo standard di queste armi. Più precisamente, anche se non confermato dai vertici militari USA, essa sarebbe pari a cinque chilotoni, cioè circa un terzo della bomba sganciata su Hiroshima alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Associated Press ha citato come termine di paragone anche i missili W76, installati sui sottomarini “strategici” americani, i quali hanno una potenza di 90 chilotoni e i W88 di addirittura 475 chilotoni.

A livello ufficiale, l’input alla costruzione dei missili a “bassa potenza” W76-2 era contenuto nel documento del Pentagono di un paio di anni fa che rivedeva la posizione americana riguardo l’uso di armi atomiche (“Nuclear Posture Review”). In esso si raccomandava la costruzione di questi nuovi missili balistici nucleari, lanciabili dai sottomarini (SLBM), per “garantire un’opzione di risposta rapida in grado di penetrare le difese nemiche” e per far fronte a una presunta debolezza del “deterrente” americano.

Già nel 2015, l’allora vice-segretario alla Difesa, Robert Work, in un’apparizione di fronte alla commissione “Forze Armate” della Camera dei Rappresentanti, aveva in realtà spiegato la giustificazione sfruttata dal Pentagono per promuovere la produzione di missili nucleari a “bassa potenza”. La sua tesi si collegava prevedibilmente al comportamento della Russia, al cui governo attribuiva una decisione militare-strategica teoricamente minacciosa per gli Stati Uniti, anche se tutt’altro che reale.

La dottrina militare russa in questione era cioè definita dagli USA come una “strategia di escalation per favorire una de-esclation”. Nel concreto, il Pentagono imputava e continua a imputare a Mosca la scelta di considerare, in una situazione di conflitto, anche l’uso limitato preventivo di armi nucleari, tra cui missili “a bassa potenza”, per costringere il proprio nemico a fare un passo indietro nel timore di innescare un’escalation nucleare.

Su questa premessa, in larga misura per non dire del tutto ingannevole, si basa la decisione dell’amministrazione Trump di puntare su nuovi missili nucleari dalle potenzialità “limitate”. Invertendo le responsabilità, in altre parole, la disponibilità di armi di questo genere dovrebbe scoraggiare gli avversari degli Stati Uniti, come la Russia, dall’utilizzo di armi nucleari “a bassa potenza”, proprio perché ciò provocherebbe una risposta simile da parte di Washington.

Nella logica contorta del Pentagono, ciò dovrebbe rafforzare il principio della deterrenza e far diminuire quindi il rischio di una guerra nucleare. In realtà, a livello generale, una strategia che preveda la consegna ai militari di un’ulteriore opzione nucleare può difficilmente essere considerata come un contributo alla pace.

Nello specifico, inoltre, quest’ultima evoluzione della dottrina nucleare americana si inserisce in un progetto di modernizzazione e rafforzamento dell’arsenale atomico USA lanciato qualche anno fa dall’amministrazione Obama. Esso prevede una spesa complessiva di oltre mille miliardi di dollari e ha come obiettivo ultimo quello di cercare di arrestare, non esattamente con mezzi pacifici, il declino della posizione internazionale degli Stati Uniti.

La natura artificiosa del pretesto usato da Washington per decretare la prima aggiunta al proprio arsenale nucleare strategico da decenni è testimoniata dal fatto che il governo e i militari russi non hanno stabilito in nessun documento né presa di posizione ufficiale la legittimità dell’impiego di armi atomiche in maniera “preventiva” o in risposta a un attacco “convenzionale”, a meno che quest’ultimo sia talmente devastante da mettere a rischio “l’esistenza stessa dello stato”.

La rinuncia da parte di Mosca a queste opzioni è evidente sia dalla lettura del più recente documento strategico delle forze armate russe, risalente al 2014, sia dalle spiegazioni date nei mesi scorsi dal presidente Putin. Parlando ad esempio nel corso di un meeting del Valdai Club lo scorso ottobre, il numero uno del Cremlino fece riferimento proprio alle decisioni americane in proposito e affermò che “la dottrina nucleare russa non prevede [la possibilità di] un attacco preventivo”, ma soltanto un’eventuale “azione reciproca”, in risposta cioè a un attacco nucleare.

A tutti gli effetti, è piuttosto la strategia degli Stati Uniti che prevede l’opzione di un’offensiva nucleare a fronte di “un attacco non nucleare” e di “un’aggressione convenzionale su larga scala”. La definizione di minaccia a cui è possibile rispondere con armi atomiche è chiaramente più vaga rispetto a quella adottata dalla Russia, dove l’unica ipotesi che includa un lancio di missili nucleari dopo un attacco “convenzionale” è collegata a una minaccia all’esistenza dello stato.

Il vero obiettivo di Washington non è perciò tanto quello di rafforzare il proprio deterrente per evitare una guerra nucleare, quanto, in maniera inquietante, di colpire preventivamente con armi nucleari di “bassa potenza” paesi nemici, soprattutto se sprovvisti di ordigni nucleari, a cominciare dall’Iran. Ovviamente, anche attacchi dello stesso tipo potrebbero essere contemplati contro potenze nucleari, come la Corea del Nord, o le stesse Russia e Cina, confidando in una “de-escalation” o, per meglio dire, in una resa da parte di queste ultime per evitare l’annientamento nucleare reciproco.

Questi argomenti propongono la tesi agghiacciante di una guerra nucleare che può essere combattuta e vinta. Che essi vengano seriamente presi in considerazione dai vertici politici e militari americani è confermato dalla coincidenza temporale della probabile installazione dei missili W76-2 sulla nave da guerra “Tennessee” con la decisione da parte del presidente Trump di assassinare a Baghdad il generale dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, Qasem Soleimani.

NBC News aveva scritto a fine gennaio che, nello stesso vertice da cui era uscita la decisione di uccidere Soleimani, Trump aveva autorizzato il Pentagono a colpire una serie di obiettivi militari iraniani, verosimilmente in caso di risposta all’assassinio del generale in territorio iracheno. Di fronte a queste informazioni, è legittimo ipotizzare come a Washington fosse allo studio una provocazione nei confronti di Teheran che, in caso di risposta, poteva fornire la giustificazione per condurre un attacco di ampia portata contro la Repubblica Islamica, forse anche con missili nucleari “a bassa potenza”.

L’ipotesi della provocazione studiata a tavolino è ulteriormente irrobustita dalla recente notizia, proveniente dal governo di Baghdad, sull’identità dei responsabili dell’episodio che era stato all’origine della guerra sfiorata con l’Iran. Il 27 dicembre, Washington aveva denunciato il lancio di missili contro una propria base militare in Iraq, a seguito del quale era morto un “contractor” iracheno-americano, puntando il dito contro la milizia sciita filo-iraniana Ketaib Hezbollah, puntualmente colpita da una ritorsione che aveva fatto decine di vittime.

Gli Stati Uniti avevano poi ricondotto la pianificazione del blitz al generale Soleimani, la cui morte sarebbe stata dunque una giusta punizione. Come rivelato da un’indagine del New York Times, dopo settimane da questi fatti è invece emerso da Baghdad che l’operazione contro la base americana situata nei pressi della città di Kirkuk sarebbe stata portata a termine non da gruppi paramilitari iracheni sostenuti da Teheran, ma da ciò che resta dei fondamentalisti dello Stato Islamico (ISIS).

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