Le polemiche e le proteste contro l’impiego di agenti federali di vari corpi speciali in alcune città americane non hanno fatto nulla per convincere il presidente Trump a desistere da un’iniziativa gravemente lesiva dei diritti democratici e con ogni probabilità anti-costituzionale. Anzi, la Casa Bianca ha già preparato l’invio di centinaia di altre truppe per reprimere le manifestazioni contro la brutalità della polizia, a cominciare da Portland, nell’Oregon, da qualche settimana vero e proprio fulcro della rivolta e simbolo delle tensioni sociali che stanno iniziando a esplodere negli Stati Uniti.

 

Mentre altrove le proteste esplose in seguito al brutale assassinio di George Floyd a Minneapolis per mano di alcuni agenti di polizia erano quasi del tutto rientrate, a Portland un sostanzioso presidio di dimostranti è rimasto nelle strade adiacenti l’edificio del tribunale federale. A metà luglio, in risposta a questa situazione Trump era allora ricorso a membri di milizie federali, spesso dai contorni oscuri.

Questi agenti sono intervenuti più volte in maniera decisamente sproporzionata contro i manifestanti, facendo ampio uso di gas lacrimogeni, proiettili di gomma e bastoni. Oltre agli assalti contro assembramenti in larga misura pacifici, le truppe federali di Trump sono state protagoniste in particolare di operazioni inquietanti, come il rapimento documentato di almeno sette persone, caricate con la forza su veicoli senza nessuna insegna e trasportate in località non identificate per essere interrogate al di fuori di ogni procedura legale.

Portland è stato il primo banco di prova per questi metodi. In seguito, le truppe federali sono state mandate anche in altre città, tra cui Chicago, Seattle, Kansas City e Albuquerque, quasi sempre contro il parere degli amministratori locali appartenenti al Partito Democratico. I sindaci di queste e altre città hanno indirizzato questa settimana una lettera ai leader del Congresso di Washington per invitarli a intervenire e mettere fine al dispiegamento “illegale” di agenti federali con compiti di ordine pubblico nelle città americane.

Nel frattempo, tuttavia, abusi ed eccessi continuano. Lunedì, il procuratore federale per lo stato dell’Oregon ha emesso 22 ordini di arresto nei confronti di manifestanti coinvolti in scontri  con le forze di polizia nei giorni precedenti. Episodi più gravi si sono registrati invece nelle città di Austin e Aurora, rispettivamente in Texas e Colorado. Nella prima, sabato scorso un uomo che stava partecipando alle proteste è stato ucciso dopo uno scontro a fuoco con gli occupanti di un’auto lanciata contro i dimostranti. Nel secondo caso, un’altra sparatoria durante una manifestazione ha provocato il ferimento di due persone. In altre città è stata segnalata inoltre la presenza di gruppi di suprematisti bianchi, protagonisti di provocazioni e atti di violenza.

L’approccio dell’amministrazione Trump alla mobilitazione popolare scatenata dalla brutalità della polizia americana è perfettamente in linea con le tendenze autoritarie evidenziate negli ultimi tre anni e mezzo. Il tentativo di reprimere le proteste ha assunto anzi un carattere particolarmente anti-democratico e quasi golpista, testimoniato appunto dall’uso di forze militari e paramilitari.

Trump aveva minacciato l’invio dell’esercito, in diretta violazione della Costituzione USA, già all’inizio di giugno, quando, di fronte a proteste quasi interamente pacifiche, si era appellato a una legge del 1807 (“Insurrection Act”) per giustificare la repressione. In quell’occasione, l’esperimento del presidente repubblicano era stato sventato soprattutto dalla presa di posizione contraria dei vertici militari, anche se più per ragioni di opportunità che per scrupoli democratici.

L’inquilino della Casa Bianca ha in seguito optato per una tattica graduale che ha comunque portato nelle strade delle città americane truppe federali, impegnate anche in operazioni clandestine degne di un regime militare. Queste iniziative si sono accompagnate a una retorica sempre più feroce, fatta in primo luogo di attacchi contro quelli che vengono definiti costantemente come “anarchici violenti” o “estremisti di sinistra” pronti a mettere a ferro e fuoco gli Stati Uniti e a rovesciare l’ordine (capitalista) costituito.

Mentre la reazione di Trump è motivata a prima vista dalle proteste in corso e dagli sporadici episodi di violenza per mano dei dimostranti, è evidente come le preoccupazioni della Casa Bianca siano di natura più ampia e le stesse iniziative ultra-autoritarie di queste settimane rientrino in un disegno allo studio da tempo. La gestione disastrosa dell’epidemia di Coronavirus e gli effetti devastanti che essa sta producendo sull’economia e ogni aspetto della società americana hanno fatto esplodere le contraddizioni di un sistema interamente piegato agli interessi di una ristretta cerchia di super-ricchi, a difesa del quale opera un apparato di polizia violento e repressivo.

La via d’uscita prescelta da Trump, in netto declino nei sondaggi a poco più di tre mesi dalle presidenziali, consiste nell’alimentare i sentimenti più retrogradi della sua base elettorale e nel fare appello alle forze armate del paese, il tutto ingigantendo la minaccia di fantomatiche cospirazioni di estrema sinistra, ricondotte – assurdamente – a una regia da ricercare nel Partito Democratico. Il comportamento di Trump ha intenti marcatamente eversivi che sono testimoniati anche dalle ripetute dichiarazioni nelle quali si è rifiutato di impegnarsi ad accettare un’eventuale sconfitta nelle elezioni di novembre.

Quanto sta accadendo negli Stati Uniti in questi giorni è ad ogni modo un processo più generale non legato soltanto alle inclinazioni anti-democratiche dell’attuale occupante della Casa Bianca. Le scene a cui si assiste nelle città americane ricordano cupamente quelle viste in Iraq o in Afghanistan, dove di fatto i metodi brutali che hanno distrutto intere società e represso ogni forma di resistenza all’occupazione hanno rappresentato un’anticipazione di quanto sarebbe accaduto in patria.

A ciò va aggiunta la deriva autoritaria ratificata da iniziative (pseudo-)legali inaugurate all’indomani dell’11 settembre 2001 che hanno a poco a poco eroso le fondamenta democratiche americane. Basti pensare, tra l’altro, ai vastissimi poteri di sorveglianza e controllo assegnati alle agenzie di intelligence o al precedente fissato nel 2011 dall’amministrazione Obama che dichiarò legittimo l’assassinio mirato extra-giudiziario anche di cittadini americani in seguito a una semplice decisione del presidente.

Una sorta di milizia della Casa Bianca è così in questi giorni impiegata con compiti repressivi nelle città americane. Le truppe mobilitate fanno parte di agenzie del dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), anch’esso una creatura partorita nel clima post-11 settembre. Significativo appare soprattutto il ricorso a reparti appartenenti alle forze solitamente destinate al controllo delle frontiere (ICE, CPB), esercitatesi in questi anni nella guerra all’immigrazione. Tra di esse spicca la famigerata e poco conosciuta BORTAC (“Border Patrol Tactical Unit”), un’unità speciale e super-addestrata della “Customs and Border Protection” (CBP), già impiegata in decine di operazioni all’estero e sostanzialmente dedicata, sul territorio americano, alla caccia agli immigrati irregolari.

Molte di queste agenzie federali che stanno fornendo uomini al governo per soffocare le proteste popolari hanno infine al loro vertice direttori “provvisori”, le cui nomine non sono mai state confermate dal Congresso, come previsto dalla Costituzione, e che sono perciò a tutti gli effetti alle dirette dipendenze del presidente Trump.

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