La Costa Rica non è abituata ai grandi titoli di giornale e preferisce essere dipinta nell’immaginario collettivo come terra di pace, nazione “verde”, con uno Stato forte che si fa carico del benessere di una popolazione segnalata come tra le più felici al mondo. Insomma, una piccola “svizzera centroamericana” che snobba e mantiene le distanze dalle nazioni problematiche della regione (Nicaragua, Honduras, El Salvador, Guatemala) e che difende col coltello tra i denti i propri confini per garantire la tranquillità e il benessere della sua popolazione.

Un’immagine da cartolina da offrire ai tour operator che trova però sempre meno riscontri in una realtà che ha cominciato a deteriorarsi a partire dal 2007, quando l’allora presidente e premio Nobel per la pace, Oscar Arias, assecondò e si colluse con il corporativismo multinazionale per fare approvare il Trattato di libero commercio Stati Uniti, America Centrale, Repubblica Domenicana (CAFTA-DR).

In quell’anno, brogli, voto di scambio, pressioni e minacce su settori strategici dell’economia costaricana impedirono alla piazza di avere la meglio nel referendum propositivo. Fu l’inizio della perdita di diritti, dell’incremento delle disuguaglianze. Fu l’inizio della perdita graduale della sovranità economica e giuridica a favore delle multinazionali e dell’installazione di un sistema di esonerazioni fiscali che, oggi, rappresenta circa il 5% del Pil del paese.

Prime avvisaglie

Già tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, la Costa Rica aveva visto le sue piazze riempirsi nuovamente, questa volta contro il tentativo del governo di approvare un pacchetto di riforme fiscali che avrebbe avuto pesanti ricadute sulla fasce medio-basse della popolazione, in particolare sui dipendenti pubblici. In quell’occasione il risultato non fu dei migliori e la riforma fiscale fu approvata in parlamento.

Due anni dopo, la società costaricana è nuovamente in fermento e le piazze piene, questa volta contro l’intenzione del presidente Carlos Alvarado di firmare un accordo con il Fondo monetario internazionale, Fmi, per un prestito di 1.750 milioni di dollari (1.500 milioni di euro). A mobilitarsi è un ampio ventaglio di settori della società costaricana, molti dei quali riuniti sotto la sigla del Movimento riscatto nazionale, Mrn, che rifiuta i termini del possibile accordo: aumento delle imposte su salari, immobili e transazioni bancarie, tagli alla spesa pubblica, fusione di enti pubblici, privatizzazione della Banca internazionale della Costa Rica (Bicsa) e della storica Fabbrica nazionale di liquori.

La protesta si è estesa a buona parte del territorio nazionale, con blocchi stradali e scontri con i corpi speciali della polizia che non hanno lesinato violenza. Nella zona di Cañas, a pochi chilometri dalla frontiera con il Nicaragua, la polizia ha attaccato senza un vero motivo manifestanti, famiglie e anche giornalisti.

Il fatto è che, dopo anni di lento ma inesorabile peggioramento delle condizioni di vita di ampie fasce di popolazione, diventa sempre più difficile incanalare il malcontento accumulato. Se le cifre macroeconomiche della Costa Rica fanno invidia alla maggior parte delle nazioni latinoamericane e a più di una europea, i livelli di redistribuzione della ricchezza cominciano a mettere i brividi.

Diseguale e antisindacale

Secondo la Banca mondiale, nel 2019 circa un quarto della popolazione viveva in povertà e il 7 per cento in miseria. Costa Rica è passata in meno di trent’anni da essere uno dei paesi più egualitari dell’America Latina a essere, nel 2018, il quarto più diseguale dopo Brasile, Honduras e Colombia. 

La nazione centroamericana è anche tra le più antisindacali dell’intero continente latinoamericano. Secondo dati del Ministero del lavoro (2015) solo il 10 per cento dei lavoratori è iscritto a un sindacato, la maggior parte dei quali nel settore pubblico dove lavora solo l’8 per cento degli occupati. Nel settore privato, invece, la percentuale è inferiore al 3 per cento e il diritto alla libertà sindacale e alla contrattazione collettiva (Conv. 87 e 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro) è praticamente inesistente.

Solo pochi mesi fa, in pieno lockdown per il coronavirus, le autorità costaricane hanno dovuto chiudere un centinaio di aziende agricole situate nel nord del paese, a pochi chilometri dal confine con il Nicaragua. Non solo operavano senza un permesso sanitario, ma impiegavano lavoratori immigrati irregolari e in condizioni di semi schiavitù. Si tratta in prevalenza di aziende he producono, confezionano, commercializzano ed esportano ananas, derivati della canna da zucchero, tuberi e agrumi.

Per il consulente sindacale Frank Ulloa, le autorità conoscevano perfettamente la situazione. “Ora si scandalizzano, ma per anni non hanno fatto nulla e non possono nemmeno dire che erano all’oscuro di ciò che stava avvenendo. Hanno semplicemente preferito guardare da un'altra parte e lasciare che le multinazionali e i loro intermediari nazionali facessero i loro porci comodi. Nel nord del paese si vive un apartheid di fatto. È una vergogna”.

Una situazione drammatica che coinvolge anche le popolazioni indigene della Costa Rica, estromesse dai propri territori da latifondisti violenti e senza scrupoli, che approfittano dell’assenza dello Stato per agire nella più totale impunità. L’omicidio lo scorso anno del dirigente indigeno Bribri, Sergio Rojas e quello di qualche mese fa del leader indigeno Brörán, Jhery Rivera, entrambi impegnati nel recupero dei territori ancestrali, sono l’esempio della grave situazione di esclusione e repressione a cui sono sottoposte migliaia di famiglie.

Il lockdown ha poi dato un colpo mortale a una situazione già di per sè difficile. Le proiezioni ufficiali indicano che il paese chiuderà il 2020 con un deficit finanziario del 9,3 per cento, con un debito pubblico che equivale al 70,2 per cento del Pil e con una contrazione del 5 per cento dell’economia. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, in meno di un anno la dissocupazione è passata dall’11,5 al 24,4 per cento.

No al FMI!

Per chi sostiene l’accordo triennale con il Fmi, questo sarebbe l’unico modo per risollevare il paese. Chi è sceso in piazza pensa invece che servirebbe solo a garantire gli interessi dell’impresa privata e delle multinazionali, rafforzando il modello neoliberista, basato su estrattivismo e agroindustria, acuendo le differenze sociali.

Per il sindacato dei maestri e le maestre, Ande, non è con nuove imposte che si migliora la situazione della Costa Rica, soprattutto quando il grande capitale nazionale e multinazionale continua a godere di enormi sgravi fiscali e si moltiplicano i casi di corruzione. Ciò che sta accadendo, non solo nella Costa Rica ma nella maggior parte dei paesi dell'America Latina e del mondo, farebbe quindi parte di “un piano macabro” ordito dal Fmi, dalla Banca mondiale e dall'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). “Chiediamo giustizia tributaria. Chiediamo che si garantiscano i diritti di lavoratori e lavoratrici, che si fermi la precarizzazione del lavoro. L’accordo con l’Fmi peserà solo sulla classe lavoratrice. Il governo non difende gli interessi della gente, ma quelli delle multinazionali. Che i ricchi paghino come ricchi e i poveri come poveri!”, ha detto Gilberto Cascante, presidente di Ande.

Quale dialogo?

Intanto le proteste stanno dando i primi frutti e il presidente Alvarado ha ritirato la proposta. Nonostante ció, le manifestazioni non cessano. Non sono pochi quelli che temono si tratti di una strategia del governo per prendere tempo, smobilitare la protesta e negoziare i voti in parlamento con quei settori della politica e dell’impresa privata che finora si sono mostrati critici con la proposta dell’eesecutivo.

Nella giornata del 15 ottobre, il Mrn ha annunciato la sospensione dei blocchi stradali fino a mercoledì 21 ottobre. Uno dei leader del movimento, Célimo Guido, ha dichiarato alla stampa che adesso la palla passa al presidente Alvarado, che dovrà dimostrare di volere davvero dialogare con la piazza.

Alvarado sembra invece intenzionato ad andare avanti per la sua strada. Insieme al presidente del parlamento Eduardo Cruickshank ha convocato un tavolo multisettoriale di accordi sulla stabilità fiscale, ma più della metà dei settori invitati ha declinato l’appuntamento.

Sulla possibilità di convocare un tavolo di dialogo, il partito Frente Amplio (sinistra moderata) ha invitato le diverse forze sociali a sostenere un’agenda che abbia come temi principali la giustizia economica e tributaria e a non abbandonare la piazza. I prossimi giorni saranno decisivi per il futuro del piccolo paese centroamericano.

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