Il successo del Partito Laburista neozelandese della premier Jacinda Ardern nelle elezioni generali del fine settimana è andato al di là delle già incoraggianti aspettative alimentate dai sondaggi della vigilia. Il giovane primo ministro è diventata da qualche tempo una vera e propria stella della politica “progressista” globale e viene incessantemente promossa dalla stampa come un’alternativa al populismo ultra-reazionario di Donald Trump. La realtà della Nuova Zelanda non è però tutta rose e fiori e, oltretutto, l’ascesa irresistibile della Ardern sembra essere collegata quasi esclusivamente al successo ottenuto nella battaglia contro l’epidemia di Coronavirus.

 

I laburisti si sono assicurati in teoria la possibilità di governare da soli, cosa che non riusciva a nessun partito dal 1996, grazie al 49% dei consensi e ai 64 seggi conquistati sui 120 totali del parlamento neozelandese. Questo risultato è inoltre il migliore per il “Labour” dal 1946. Ad allargare ancora di più la maggioranza del prossimo esecutivo potrebbero contribuire i Verdi, saliti dal 6,3% al 7,6% e in grado di ottenere 10 seggi.

Anche se la Ardern avrebbe appunto i numeri per non essere vincolata ad alleati o partner di governo, il fatto che i giornali neozelandesi e occidentali stiano sollevando l’ipotesi di una partecipazione dei Verdi la dice lunga sulla situazione tutt’altro che distesa in casa laburista, nonostante il trionfo elettorale. Davanti al prossimo governo ci sono infatti scelte difficili, legate in primo luogo al debito accumulato con le misure di emergenza dei mesi scorsi, e il coinvolgimento dei Verdi tornerebbe utile per dare una patina di “sinistra” all’operato della premier, più che altro nell’ambito delle politiche ambientali.

Il fattore di gran lunga più importante nel determinare la vittoria schiacciante del Partito Laburista è stata la copertura favorevolissima della Ardern sulla stampa locale e internazionale durante la crisi del Coronavirus. Il governo aveva imposto un lockdown piuttosto rigoroso nel mese di marzo immediatamente dopo il primo decesso ufficiale dovuto al COVID-19. La decisione delle autorità era stata presa peraltro in maniera non del tutto spontanea, visto che forti erano state le pressioni di lavoratori e medici per arrivare a una chiusura precoce di tutte le attività non indispensabili.

Alla fine, la Nuova Zelanda può vantare un numero totale di casi che non arriva nemmeno a duemila, mentre i morti sono ufficialmente 25. La Ardern è riuscita in sostanza a trasformare il voto di sabato in una sorta di referendum sulla gestione della crisi sanitaria. Per il resto, i laburisti neozelandesi hanno condotto una campagna vuota di contenuti e senza traccia di promesse ambiziose, cosa che permetterà oltretutto al governo entrante di avere mano libera nei prossimi tre anni.

L’altro elemento decisivo è stata l’assenza di alternative a un governo con un’immagine mediatica così attentamente promossa. Ciò è dovuto principalmente allo stato di crisi che sta attraversando l’altro partito più importante del panorama politico della Nuova Zelanda, il Partito Nazionale conservatore. Quest’ultimo ha visto ben due avvicendamenti al proprio vertice nei mesi appena precedenti le elezioni e l’attuale leader, Judith Collins, ne aveva assunto la guida solo tre mesi fa.

Il Partito Nazionale è così crollato dal 44% del 2017 al 27% odierno, con appena 35 seggi, vale a dire la seconda peggiore prestazione della sua storia. Il declino di questo partito è da ricondurre almeno in parte anche alle accuse, provenienti tra l’altro da Washington, di favorire politiche economiche e commerciali (relativamente) filo-cinesi durante gli anni in cui ha governato il paese dell’Oceania. A questo proposito, malgrado la contrapposizione tra la premier Jacinda Ardern e il presidente Trump, la nascita del governo di coalizione a guida laburista nel 2017 fu salutato con soddisfazione dalla Casa Bianca, proprio per via dell’orientamento più convinto verso l’alleato americano.

L’esito delle elezioni in Nuova Zelanda indica in ogni caso una crescente domanda di politiche progressiste tra l’elettorato, soprattutto in una situazione di profonda crisi come quella scatenata dalla pandemia in atto. Un’altra conferma di ciò è il risultato disastroso del partito ultra-nazionalista anti-immigrazione “New Zealand First”, capace di raccogliere appena il 2,7% dei voti e quindi lontanissimo dalla soglia di sbarramento del 5%. Questo partito faceva peraltro parte della coalizione che ha appoggiato il primo governo Ardern, dopo avere abbandonato il Partito Nazionale all’indomani delle elezioni del 2017, a dimostrazione quanto meno della natura flessibile delle attitudini di sinistra della premier.

Se, dunque, l’idea che si ricava dalla stampa “mainstream” di Jacinda Ardern e del Partito Laburista neozelandese sotto la sua leadership è quella di una Nuova Zelanda diventata negli ultimi anni poco meno di un paradiso del progressismo, la realtà economico-sociale del paese e la condotta del governo sembrano raccontare una storia almeno in parte diversa. Anzi, in qualche occasione sono gli stessi media ufficiali e di tendenze “liberal” a offrire indizi di diverso genere che aiutano a fare chiarezza sui successi o presunti tali del primo ministro.

Il New York Times, ad esempio, in un’analisi pre-elettorale aveva in definitiva confermato come la popolarità della Ardern fosse un fenomeno soprattutto estero e ricordava allo stesso tempo che, ancora nel mese di gennaio, i sondaggi indicavano un sostanziale equilibrio. Il motivo erano le mancate promesse fatte dai laburisti durante la campagna elettorale del 2017, “specialmente quelle riguardanti la riduzione del divario tra ricchi e poveri”.

Nei tre anni di governo, proseguiva il corrispondente del Times in Oceania, “le disuguaglianze di reddito sono state a malapena scalfite, così come il tasso di povertà infantile”. Particolarmente grave resta inoltre il continuo aumento dei “costi delle abitazioni, che hanno messo fuori mercato un numero sempre maggiore di neozelandesi”. Le iniziative del governo in questo ambito non hanno fatto nulla per rimediare all’emergenza. Il “Labour” aveva promesso 100 mila case in un decennio da destinare ai redditi più bassi, ma dopo tre anni ne sono state completate appena 258.

Anche nell’affrontare la crisi economica prodotta dal Corornavirus non ci sono tracce eclatanti di progressismo, visto che per lo più sono state adottate misure “ortodosse, incentrate sullo stimolo alla costruzione di infrastrutture, alle piccole imprese e all’export”. Il comportamento del governo e, allo stesso tempo, la riluttanza ad assumere impegni coraggiosi in campagna elettorale da parte della Ardern, nonostante il capitale politico e di immagine accumulato, sono ancora più gravi se si pensa, come ha spiegato ancora il New York Times, a una realtà per certi versi non esattamente rosea e agli spazi di manovra che pure esisterebbero. La Nuova Zelanda, ad esempio, “non ha ancora una tassa sui capital gains”, mentre, d’altro canto, “la povertà è diventata ormai cronica in alcune parti del paese”.

A livello formale, però, la Ardern e il suo partito hanno puntato tutto sui concetti di apertura, inclusività e giustizia sociale. Per sostenere questa strategia, assieme alle elezioni parlamentari di sabato, gli elettori neozelandesi sono stati chiamati a esprimersi su due quesiti referendari tradizionalmente cari alla sinistra, come l’eutanasia e la legalizzazione dell’uso della marijuana. I risultati dei due referendum saranno resi noti solo alla fine del mese di ottobre.

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