Una delle questioni di politica estera più delicate che il presidente-eletto Joe Biden si troverà ad affrontare una volta entrato alla Casa Bianca è la gestione dei rapporti con l’Iran e il possibile rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA). L’ex vice di Obama qualche settimana fa aveva lasciato intendere di volere offrire alla Repubblica Islamica un percorso diplomatico per abbassare le tensioni, ma le condizioni che potrebbero essere chieste in cambio e le stesse disastrose iniziative adottate finora dall’amministrazione Trump rischiano di mettere in dubbio da subito le prospettive di un eventuale negoziato.

Il presidente uscente ha anzi promesso di moltiplicare le sanzioni punitive contro l’Iran durante le settimane che mancano al suo addio alla presidenza. L’accumularsi di misure punitive renderebbe difficile un piano di de-escalation dell’amministrazione entrante. L’intensificazione delle pressioni su Teheran da parte di Trump potrebbe essere poi addirittura una strategia deliberata per far precipitare la situazione, così da creare a tavolino un casus belli e un’emergenza nazionale in supporto dei piani per restare alla Casa Bianca nonostante la sconfitta elettorale.

Il riferimento principale delle intenzioni di Biden è per ora l’editoriale scritto a settembre per il sito della CNN nel quale affermava appunto di volere “offrire a Teheran un percorso realistico per tornare al tavolo della diplomazia”. Per Biden, “se l’Iran tornasse al rispetto rigoroso dell’accordo sul nucleare”, gli Stati Uniti rientrerebbero a loro volta nel JCPOA e ciò rappresenterebbe “il punto di partenza per successivi negoziati”. Infine, gli USA e i loro alleati “lavoreranno per rafforzare ed estendere le clausole dell’accordo” e, con una notazione forse cruciale, si adopereranno per includere nelle discussioni “altri argomenti che sollevano preoccupazioni”.

Com’è noto, il presidente Trump era uscito arbitrariamente e unilateralmente dal JCPOA nel maggio del 2018 al termine di una campagna di discredito dell’accordo sottoscritto da Obama, nonostante anche la sua amministrazione avesse sempre certificato il rispetto di esso da parte della Repubblica Islamica. Da allora, gli Stati Uniti hanno reintrodotto le sanzioni sospese dal JCPOA e ne hanno imposte molte altre, incluse le famigerate sanzioni “secondarie” che colpiscono governi e soggetti privati di altri paesi intenzionati a intrattenere rapporti economici, finanziari e commerciali con l’Iran.

Gli altri argomenti a cui ha fatto riferimento Biden nella sua dichiarazione d’intenti sull’Iran si riferiscono quasi certamente alle “attività” di Teheran nella regione mediorientale, vale a dire l’alleanza con l’arco della “resistenza” sciita, e il programma dei missili balistici. Entrambe le questioni sono sempre state al centro anche dell’interesse dell’amministrazione Trump, ma rappresentano dei punti fermi che l’Iran non intende discutere, sia perché nulla hanno a che vedere con il nucleare e il JCPOA sia perché vanno a toccare il cuore degli interessi strategici del paese.

Se Biden e la sua futura squadra al dipartimento di Stato dovessero insistere nell’inclusione di questi elementi in un piano di rientro nell’accordo di Vienna, le possibilità di successo sarebbero nulle, anche perché una simile decisione mostrerebbe una sostanziale identità di vedute sull’Iran tra l’amministrazione repubblicana uscente e quella democratica entrante.

L’altra questione da valutare è quanto sarà disposto a concedere il presidente-eletto e fino a che punto chiederà a Teheran di rientrare nei parametri previsti dal JCPOA. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, domenica scorsa ha chiesto agli Stati Uniti di “risarcire” il suo paese per gli errori commessi da Trump, lasciando intendere che i danni provocati dalle sanzioni dovranno essere in qualche modo ripagati prima che la Repubblica Islamica torni al rispetto integrale delle norme dell’accordo sul nucleare.

Gli USA dovrebbero poi cancellare tutte le misure punitive imposte negli ultimi due anni, ma è difficile credere che Biden voglia liquidare un apparato sanzionatorio di tali dimensioni che, almeno in teoria, potrebbe costituire una leva per cercare di ottenere concessioni da Teheran. Soprattutto la galassia “neo-con” americana preme già sul presidente-eletto per utilizzare questo strumento e convincerlo a non sprecare quanto fatto da Trump.

Numerosi “falchi” della politica estera americana avevano d’altra parte appoggiato apertamente Biden in campagna elettorale, nonostante l’affiliazione al Partito Repubblicano, e l’eventuale scelta di personalità democratiche come Susan Rice o Anthony Blinken per la gestione degli affari internazionali nella prossima amministrazione porterebbe a una convergenza “bipartisan” su una condotta nei confronti dell’Iran non molto diversa da quella di Trump.

L’insistenza ad esempio sul superamento da parte iraniana dei limiti alla produzione di uranio arricchito previsti dal JCPOA serve a dare un’impressione distorta delle responsabilità per il riesplodere della crisi diplomatica. Proprio mercoledì, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha pubblicato l’ultimo rapporto sullo stato del programma nucleare dell’Iran, in seguito alla visita più recente dei suoi ispettori nelle installazioni del paese mediorientale, come previsto dall’accordo di Vienna. Nel rapporto viene spiegato come Teheran abbia oggi accumulato una quantità di uranio a basso livello di arricchimento dodici volte superiore a quello consentito dal JCPOA. La “purezza” di questo materiale raggiunge inoltre il 4,5%, cioè più del 3,67% permesso dall’accordo, anche se di molto inferiore al livello necessario per l’utilizzo in ambito militare.

A giudicare da come la stampa ufficiale ha trattato la notizia, si ha quasi sempre l’impressione che l’Iran abbia irresponsabilmente ripreso l’attività di arricchimento senza limiti e, in maniera velata, che si stia precipitando verso la bomba atomica. In realtà, al di là del fatto che l’applicazione militare è totalmente da escludere, le autorità di Teheran si sono mosse al di fuori dei limiti del JCPOA solo dopo che gli Stati Uniti hanno abbandonato il trattato stesso.

Anzi, prima di prendere questa decisione, prevista oltretutto dal JCPOA, l’Iran ha anche atteso a lungo che i paesi europei firmatari (Francia, Gran Bretagna, Germania) mettessero assieme il meccanismo promesso per bypassare le sanzioni americane e tenere in vita l’accordo. Una volta constatata l’impotenza europea, la Repubblica Islamica ha legittimamente valutato che il rispetto integrale del JCPOA non offriva più alcun vantaggio e ha riavviato il processo di arricchimento secondo i propri piani, sia pure continuando a garantire agli ispettori il totale accesso ai propri impianti.

Oltre a questi fattori, sarà da considerare anche il comportamento degli alleati di Washington che hanno collaborato e spinto sull’amministrazione Trump in questi anni per implementare e intensificare la politica di “massima pressione” sull’Iran. Il pensiero va subito a Israele, ma anche alle monarchie assolute del Golfo Persico. Questi paesi hanno sposato in pieno il boicottaggio delle scelte diplomatiche di Obama, sfruttando l’aggressione contro l’Iran di Trump per avanzare i propri interessi regionali.

Ci sarà quindi da attendersi una campagna feroce su Biden per impedire l’allentamento delle pressioni su Teheran. Infatti, il sovrano saudita giovedì ha rilasciato una dichiarazione pubblica rivolta in primo luogo al presidente americano appena eletto. Salman ha chiesto alla comunità internazionale di assumere una “posizione ferma” nei confronti dell’Iran e dei suoi sforzi, peraltro inesistenti, di sviluppare armi nucleari, ma anche di fermare l’espansione dell’influenza sciita in Medio Oriente.

Al centro delle preoccupazioni della casa regnante saudita c’è anche la possibile revisione integrale delle relazioni con gli Stati Uniti, soprattutto alla luce delle frizioni che avevano caratterizzato i due mandati della presidenza Obama. Le questioni che tra le altre si intrecciano in varia misura al file iraniano e che potrebbero risentire dell’avvicendamento alla Casa Bianca sono quelle della guerra in Yemen, dei rapporti con Israele, della fornitura di armi americane e delle ripercussioni del brutale assassinio del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi.

Resta anche il fatto che la fazione della classe dirigente americana che ha scelto la diplomazia con l’Iran, e a cui fa riferimento Joe Biden, ha in fin dei conti lo stesso obiettivo finale dei “falchi”, ovvero il cambio di regime a Teheran o la sottomissione di questo paese agli interessi USA. L’accordo sul nucleare era uno strumento che in questo quadro doveva servire a dare l’impressione di un Occidente disposto a fare concessioni importanti alla Repubblica Islamica, ma se i suoi leader avessero insistito nel perseguire politiche radicali, cioè “indipendenti”, l’opzione militare sarebbe stata forse accettata con meno resistenze dall’opinione pubblica internazionale.

Va ricordato infine che, al di là delle intenzioni di Biden, peseranno sulle eventuali chances di successo della diplomazia gli scenari politici che usciranno dalle elezioni presidenziali iraniane della prossima estate. Proprio l’offensiva di questi anni di Trump ha generato rabbia e disillusione ai vertici della Repubblica Islamica e la nuova amministrazione USA potrebbe perciò trovarsi di fronte non più gli interlocutori “moderati” e ben disposti come Rouhani e il ministro degli Esteri, Zarif, bensì una leadership che preferisce l’opzione della linea dura e non si accontenterà di tornare semplicemente agli equilibri usciti dall’accordo di Vienna.

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