Il nuovo fronte di guerra che si è aperto da un paio di settimane in Etiopia minaccia seriamente di scatenare una sanguinosa guerra civile nel secondo paese del continente per popolazione e di destabilizzare tutta la regione del Corno d’Africa. Il governo centrale del primo ministro e premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed, ha ordinato il bombardamento e l’occupazione militare della regione settentrionale del Tigrè, secondo la versione ufficiale per riportare “la legge e l’ordine” in un’area dominata politicamente dal Fronte di Liberazione Popolare Tigrino (FLPT), cioè l’organo che rappresenta la maggioranza dell’etnia a cui fa riferimento e che è da tempo ai ferri corti con le autorità di Addis Abeba.

 

L’Etiopia è potenzialmente una vera e propria polveriera che può essere innescata dal dilagare delle tensioni tra le numerose etnie che la compongono e dalla persistente povertà della sua popolazione, peggiorata dall’impatto dell’epidemia di Coronavirus. La situazione era iniziata a precipitare il 4 novembre scorso con l’avvio dell’offensiva delle forze armate federali nel Tigrè in seguito all’accusa rivolta da Abiy al FLPT di avere bombardato una base dell’esercito.

Una stima indipendente delle vittime e dei danni provocati dalle prime fasi del conflitto è difficile da formulare, visto che il governo federale aveva subito imposto un black-out delle comunicazioni telefoniche ed elettroniche. I morti potrebbero però essere già centinaia, mentre più di 20 mila sono i civili che hanno cercato rifugio nel vicino Sudan. Ci sono inoltre voci di massacri per i quali le due parti si rimbalzano le responsabilità. Amnesty International ha ad esempio raccontato di una strage a colpi di machete di decine di persone in un villaggio della regione del Tigrè.

Tra il fine settimana e lunedì, le forze federali hanno annunciato la “liberazione” della città di Alamata, nel Tigrè meridionale. La capitale della regione, Macallè, è stata invece bombardata, con le autorità locali che hanno riportato l’uccisione di almeno due civili. Il governo di Abiy continua a respingere tutte le richieste internazionali per un cessate il fuoco, da ultime quelle del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, dei governi di Kenya e Gibuti e dell’ex presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo. Un portavoce del governo etiope ha assicurato che le operazioni militari saranno di breve durata e non sarà perciò necessaria nessuna trattativa per sospendere il conflitto.

Intanto, però, nella guerra sembra essere stata già trascinata anche la vicina Eritrea. Nei giorni scorsi, il FLTP ha lanciato almeno tre razzi contro l’aeroporto di Asmara come ritorsione contro il presunto invio di soldati eritrei oltre il confine etiope per combattere a fianco delle forze federali. Tra il 1998 e il 2000, Etiopia ed Eritrea avevano combattuto una feroce guerra di confine che aveva fatto qualcosa come 100 mila morti. I due paesi erano rimasti nemici giurati fino a due anni fa, quando è stato finalizzato un accordo di pace per certi versi sospetto che sarebbe valso il premio Nobel al primo ministro etiope.

Nella guerra con l’Eritrea avevano svolto un ruolo decisivo le forze tigrine e, anche dopo la pace promossa da Abiy, dal punto di vista pratico le cose non sono cambiate di molto per la regione dell’Etiopia settentrionale, i cui abitanti sono della stessa etnia degli eritrei. Le relazioni con il Tigrè sono rimaste tese, il confine chiuso e gli spostamenti in gran parte vietati per coloro che hanno famigliari oltrefrontiera.

Il rischio di un allargamento del conflitto ad altri paesi è dunque concreto, così come del prolungarsi delle ostilità. Il FLTP, secondo alcune stime, può contare su un esercito di 250 mila uomini ben armati e ha una reputazione formidabile che risale alla guerra culminata nel rovesciamento del regime di Menghistu nel 1991. Gli eventi di questi giorni minacciano anche di fare esplodere conflitti che coinvolgono altre minoranze etniche etiopi, soprattutto alla luce delle politiche di accentramento messe in atto dal primo ministro Abiy dopo l’ascesa al potere nel 2018.

Fino a questa data, l’Etiopia era governata da una coalizione (“Fronte Popolare Democratico Rivoluzionario Etiope”) che includeva il FLPT. Quest’ultimo aveva anzi un’influenza decisamente superiore rispetto alla quota di popolazione etiope di etnia tigrina. Assunta la carica di primo ministro con modalità non del tutto chiare, Abiy aveva proceduto a dissolvere la coalizione per sostituirla con il nuovo Partito della Prosperità. Il FLTP si era però rifiutato di sciogliersi in questo nuovo soggetto politico e da subito erano esplose gravi tensioni con Addis Abeba.

Abiy aveva così inaugurato una serie di epurazioni di personalità di etnia tigrina con incarichi di primo piano nelle istituzioni federali, fino a che le tensioni sono diventate incontrollabili a partire dallo scorso mese di settembre. Il Tigrè aveva deciso di organizzare le elezioni locali che il governo centrale aveva invece rinviato a causa dell’epidemia. Abiy aveva allora dichiarato illegale il voto e dissolto le strutture di governo regionali dominate dal FLTP, assumendo direttamente il controllo dell’area “ribelle”.

La maggior parte dei media occidentali continua a descrivere l’azione del governo di Addis Abeba come se fosse in qualche modo collegata a un piano di democratizzazione del paese africano, sia pure considerandone i rischi e gli eccessi. In realtà, l’obiettivo di Abiy è sostanzialmente quello di consolidare il potere centrale e limitare le autonomie, soprattutto quelle più resistenti come nel Tigrè, per spianare la strada a un’apertura dell’Etiopia al capitale internazionale.

Nei quasi tre decenni seguiti alla caduta di Menghistu, l’Etiopia aveva mantenuto una politica estera relativamente indipendente e un sistema economico improntato a un certo nazionalismo. La Cina era diventata inoltre un partner importante per lo sviluppo dell’economia e delle infrastrutture, trasformando in fretta l’Etiopia in uno snodo decisivo per i piani di espansione di Pechino nel continente africano.

In questa prospettiva, la condotta di Abiy appare come una liberalizzazione forzata del paese e più di un dubbio fanno nascere i precedenti dello stesso primo ministro etiope. Abiy ha ricoperto incarichi governativi durante il governo di coalizione precedente alla sua ascesa al potere e ancora prima era stato un alto ufficiale dell’intelligence militare. In questo ruolo aveva avuto rapporti molto stretti con le controparti americane, mentre l’esperienza di studio in una università dell’Ohio viene citata da qualcuno come prova di un suo possibile “reclutamento” da parte della CIA.

In definitiva, dietro alla durissima offensiva in corso contro le autorità regionali tigrine non sembra esserci tanto il presunto “tradimento” dei leader del FLTP, quanto motivazioni legate al regolamento di conti tra le etnie dominanti dell’Etiopia e soprattutto la determinazione di Addis Abeba di schiacciare ogni resistenza contro la rotta che il governo centrale intende intraprendere nel prossimo futuro.

Questi fattori si intrecciano indissolubilmente con le rivalità e le dinamiche geo-strategiche che interessano il Corno d’Africa e, sia per l’importanza di questa regione sia per il peso specifico dell’Etiopia nel quadro continentale, rischiano di infiammare la situazione e fare esplodere un conflitto in grado di coinvolgere molti dei paesi confinanti, con conseguenze potenzialmente disastrose sul fronte umanitario.

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