Mentre i voti ottenuti da Joe Biden si avvicinano alla cifra record di 80 milioni e il vantaggio su Donald Trump sfiora ormai i 6 milioni, il presidente repubblicano e i suoi legali continuano a non dare segnali apparenti di voler riconoscere la sconfitta. Il processo di certificazione della vittoria dell’ex vice di Obama si è ormai messo in moto in quasi tutti gli Stati Uniti, ma una serie di cause senza fondamento intentate dagli avvocati della Casa Bianca potrebbe quanto meno rallentare l’omologazione dei dati. Con l’avvicinarsi della data di fine mandato, tuttavia, la strategia di Trump per provare a restare al suo posto sembra doversi spostare dalle aule di tribunale a quelle della politica o, nella peggiore delle ipotesi, agli ambienti dove vengono prese le decisioni militari e relative alla sicurezza nazionale.

Teoricamente, le speranze di Trump sono riposte sui sei stati dove i risultati appaiono più equilibrati e i margini tra i due candidati alla presidenza non superano i 150 mila voti (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin). Dopo più di due settimane dalla chiusura delle urne, in nessuno di questi o di altri stati sono emerse prove di brogli tali da influenzare i risultati finali. La strategia del presidente uscente, per quanto assurda, consiste di fatto nel cercare di squalificare i voti di quei collegi che sono stati decisivi per l’aggiudicazione degli stati in bilico a Biden perché caratterizzati da un elettorato massicciamente democratico.

Questo sforzo si basa su ridicole cause legali, ma non solo, e riguarda contee e distretti elettorali che includono metropoli come Detroit (Michigan), Atlanta (Georgia), Phoenix (Arizona), Philadelphia (Pennsylvania) o Las Vegas (Nevada). Quello che è accaduto questa settimana nella prima di queste città è particolarmente grave e insolito, anche se al di fuori dell’ambito legale. Martedì, cioè, i due funzionari repubblicani che compongono la commissione di quattro elementi responsabile della certificazione dei risultati elettorali per la contea di Wayne, che include Detroit, si sono temporaneamente rifiutati di ratificare la vittoria di Biden.

Davanti alle proteste degli altri due membri, in quota al Partito Democratico, la presidente repubblicana della commissione aveva a un certo punto proposto di certificare i risultati di tutti i seggi della contea ad esclusione proprio di Detroit, dove Biden ha prevalso con la percentuale del 95%. Ciò avrebbe sottratto al candidato democratico ben 221 mila consensi, un numero superiore al suo vantaggio complessivo su Trump in Michigan. Così facendo, i 16 “voti elettorali” dello stato sarebbero quindi andati al presidente in carica.

Le manovre dei funzionari repubblicani, senza dubbio influenzati dagli ambienti vicini alla Casa Bianca, hanno scatenato una valanga di proteste tra i residenti di Detorit, allarmati per il furto che si stava per compiere. La videoconferenza di routine prevista dopo la riunione dei certificatori di contea si è così trasformata in una piattaforma per lo sfogo di attivisti e semplici elettori, fino a che la commissione è stata costretta a fare marcia indietro e a decidere la conferma dei risultati acquisiti favorevoli a Biden. In seguito, i due repubblicani hanno dichiarato di voler tornate sui loro passi e sospendere la certificazione della vittoria di Biden, ma per le autorità statali la decisione presa martedì sarebbe ormai definitiva. La pratica sarà così inviata all’ufficio successivo a livello statale, chiamato a sua volta alla ratifica dei dati ricevuti da tutte le contee del Michigan.

Per il resto, la Georgia sta ad esempio completando il riconteggio manuale di tutte le schede, ma anche il segretario dello stato, il repubblicano Brad Raffensperger, ha già anticipato che sarà praticamente impossibile ribaltare il vantaggio di quasi 12.800 voti di Biden. Preso atto della realtà, Trump ha allora definito una “farsa” il riconteggio, chiesto peraltro dai responsabili della sua campagna elettorale. Lo stesso Raffensperger ha poi rivelato di avere subito pressioni dal senatore repubblicano Lindsey Graham, considerato uno dei più fedeli alleati di Trump a Washington, per trovare un modo per annullare un numero sufficiente di voti espressi per Biden.

In Pennsylvania, invece, una vera e propria farsa si è consumata davanti a un giudice distrettuale, quando i legali di Trump hanno chiesto di dichiarare il presidente repubblicano vincitore dei 20 “voti elettorali” dello stato, in quanto le elezioni sarebbero state caratterizzate da scorrettezze, delle quali non è stata però presentata nessuna prova. I parlamentari repubblicani dell’assemblea dello stato hanno inoltre proposto un’ispezione di tutte le schede elettorali della Pennsylvania, citando quella che sostengono essere “una lunga serie di irregolarità”. Bocciata dalla Corte Suprema statale è stata infine anche una causa che chiedeva di invalidare i risultati in alcuni seggi dove sarebbe stato impedito l’ingresso agli osservatori repubblicani per controllare le operazioni di spoglio.

Se i ricorsi di Trump non sembrano dunque portare a nulla di concreto, i suoi legali insistono nel rivolgersi ai tribunali e assicurano anzi che nuove cause saranno intentate nei prossimi giorni. Al centro della strategia della Casa Bianca non c’è probabilmente più l’obiettivo di ribaltare i risultati manipolando i conteggi, ormai ultimati quasi ovunque, o sfruttando giudici compiacenti. Piuttosto, il presidente uscente e i suoi consiglieri intendono creare artificiosamente un clima fatto di polemiche e finte controversie per promuovere la tesi dell’elezione “rubata” e della vittoria illegittima di Biden, in modo da preparare il terreno, se ci fossero le condizioni, a una manovra di fatto eversiva.

Lo scenario che viene valutato probabilmente con maggiore attenzione riguarda la possibile iniziativa dei parlamenti statali a maggioranza repubblicana. L’elaborata e anti-democratica legge elettorale americana prevede che ogni singolo stato scelga un numero stabilito di delegati, corrispondenti ai cosiddetti “voti elettorali”, che dovranno poi riunirsi e scegliere il nuovo presidente. È norma che questi delegati votino in base alla scelta della maggioranza degli elettori nei loro stati di provenienza, ma in realtà non esistono vincoli specifici in questo senso, se non in pochi stati.

Trump, quindi, potrebbe convincere le assemblee statali a intervenire nominando delegazioni di “grandi elettori” disposti a rovesciare il voto popolare e a optare per il candidato perdente. Probabilmente per questa ragione, Trump incontrerà venerdì alla Casa Bianca i leader repubblicani della Camera e del Senato statali del Michigan. Una mossa simile sarebbe com’è ovvio altamente problematica, visto in primo luogo che non sussiste la condizione principale che la possa giustificare, vale a dire un risultato elettorale oggettivamente controverso. Inoltre, non c’è consenso tra gli esperti di diritto su quale sia l’organo statale che abbia il diritto di nominare il “collegio elettorale”, anche se le opinioni sembrano propendere a favore dei governatori piuttosto che dei parlamenti statali. Negli stati in bilico, i governatori sono attualmente quasi tutti democratici, mentre nei parlamenti statali prevalgono le maggioranze repubblicane.

In teoria, è perciò possibile che le due principali autorità di un determinato stato nominino entrambe una propria delegazione di “grandi elettori”, una favorevole a Trump e l’altra a Biden. A questo punto, spetterebbe al Congresso scegliere quale delle due ritenere legittima. Queste ipotesi sembrano quasi da fantascienza politica, ma ci sono pochi dubbi che la Casa Bianca stia ragionando in questi termini. Un avvocato del presidente ha infatti ammesso pubblicamente, durante gli eventi relativi al caso di Detroit ricordato in precedenza, che l’obiettivo dei repubblicani era appunto quello di spingere l’assemblea del Michigan a nominare un “collegio elettorale” pro-Trump. Uno degli ostacoli maggiori a questa soluzione, oltre alla rivolta popolare che si scatenerebbe, è rappresentato comunque dal fatto che al presidente servirebbe rovesciare la volontà degli elettori non in uno ma in più stati per recuperare lo svantaggio da Biden.

L’altro modo che potrebbe consentire a Trump di restare al suo posto nonostante la sconfitta è lo scoppio di una qualche emergenza nazionale, accompagnata da una manovra autoritaria che fermi la transizione alla Casa Bianca. Al centro di una trama di questo genere potrebbe esserci in primo luogo un’aggressione militare contro l’Iran. Un’eventuale guerra aperta contro questo paese farebbe impallidire gli ultimi conflitti che hanno visto protagonisti gli Stati Uniti, tanto da giustificare misure di estrema emergenza imposte dal presidente.

Anche in questo caso, dell’attendibilità dell’ipotesi sono emersi solidissimi indizi. Qualche giorno fa, il New York Times aveva cioè rivelato come Trump la scorsa settimana avesse chiesto pareri militari per autorizzare un bombardamento contro le installazioni nucleari civili iraniane. L’idea criminale del presidente, per il momento rientrata, era probabilmente scaturita dall’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, per certi versi fuorviante, seguito a una recente ispezione degli impianti iraniani, in base alla quale era emerso che Teheran ha accumulato una quantità di uranio arricchito di molto superiore ai limiti previsti dall’accorso di Vienna del 2015.

Non solo, nei giorni seguiti alle elezioni, Trump ha inaugurato una serie di avvicendamenti all’interno del suo gabinetto, decisamente insoliti nella fase finale di un mandato presidenziale. Le sostituzioni di personale riguardano in buona parte il Pentagono, che ha visto un passaggio di consegne anche al proprio vertice, e possono essere da un lato una purga di funzionari infedeli ma dall’altro anche un modo per installare in posti-chiave persone fidate che siano disposte a seguire gli ordini del presidente, incluso quello di condurre un attacco militare dalla portata devastante.

Le prossime mosse di Trump non dovrebbero ad ogni modo farsi attendere, visto che mancano poco più di 60 giorni all’insediamento di Biden e meno di un mese alla certificazione del successo di quest’ultimo da parte del “collegio elettorale” dei 50 stati americani. Le preoccupazioni per una qualche mossa estrema sembrano essere diffuse a Washington, anche se media ufficiali e Partito Democratico fanno di tutto per minimizzare il pericolo, visto che temono di più una mobilitazione popolare contro Trump e tutto il sistema rispetto a un’involuzione autoritaria.

Come minimo, il comportamento del presidente sconfitto punta a gettare le basi per il consolidamento di un movimento di estrema destra e ultra-populista, fondato sul mito del “voto rubato”, per estendere la propria influenza nel Partito Repubblicano e preparare il campo, da qui a quattro anni, a una sua clamorosa ricandidatura o a quella di un suo protetto.

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