Il secondo procedimento di impeachment contro Donald Trump è entrato giovedì nel terzo giorno di lavori, caratterizzati finora dalla presentazione di elementi di prova a tratti sconvolgenti sull’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso istigato dallo stesso ex presidente. I fatti che erano emersi nelle ultime settimane, poi confluiti negli interventi dei deputati democratici incaricati di esporre le ragioni dell’accusa al Senato, sarebbero più che sufficienti a decretare la condanna di Trump. I repubblicani sono tuttavia in larga misura arroccati a difesa dell’ex presidente, che, esattamente come un anno fa, riuscirà perciò a sottrarsi a un verdetto di colpevolezza e, soprattutto, a evitare che venga fatta luce sulla preoccupante penetrazione di elementi di estrema destra nel Partito Repubblicano.

 

Martedì e mercoledì, i cosiddetti “House managers” hanno ricostruito gli eventi di cinque settimane fa con l’aiuto di filmati inediti in grado di rendere efficacemente l’idea dei livelli di violenza a cui si era assistito per alcune ore durante il tentativo dei sostenitori di Trump di prendere il controllo del Congresso. In particolare, le immagini proiettate nell’aula del Senato hanno mostrato deputati e senatori cercare disperatamente una via di fuga o un riparo al sicuro dalla furia dei rivoltosi. Sullo sfondo erano udibili in maniera chiarissima gli insulti e le minacce rivolte ai politici riuniti per certificare la vittoria di Joe Biden, inclusi quelli repubblicani come il vice-presidente, Mike Pence.

La deputata delle Isole Vergini, Stacey Plaskett, ha poi raccontato nel dettaglio le circostanze che hanno preparato l’operazione del 6 gennaio. Sui forum on-line e sui social media frequentati dagli ambienti del radicalismo di destra circolavano da parecchi giorni gli appelli a recarsi a Washington e i piani organizzativi dell’assalto. In parallelo, sono stati documentati anche gli interventi e il sostegno della Casa Bianca ad alcuni dei gruppi protagonisti dell’irruzione. Sempre la deputata Plaskett ha concluso che i rivoltosi “sono stati inviati dal presidente degli Stati Uniti”, protagonista di un infuocato discorso poco prima dell’assalto, “per fermare la certificazione dei risultati delle elezioni”.

La crudezza dei filmati presentati dai democratici ha chiaramente sconvolto anche i senatori repubblicani vicini a Trump, ma le loro conclusioni non sono andate al di là di una condanna dei contestatori, scagionando l’ex presidente da qualsiasi responsabilità nel fomentare l’accaduto. Il senatore del Texas, Ted Cruz, tra i principali complici del tentato golpe di Trump, ha definito “terrorista” l’attacco al Congresso, per poi appunto respingere la tesi della colpevolezza dell’ex inquilino della Casa Bianca. Per arrivare a una condanna, sarebbero necessari 17 voti repubblicani. Questa possibilità è estremamente remota, anche perché solo 6 senatori repubblicani hanno votato nei giorni scorsi per la legittimità del procedimento di impeachment contro un presidente non più in carica.

È del tutto evidente che i repubblicani – come Cruz o l’altro principale “complice” del presidente, il senatore del Missouri, Josh Hawley – intendono ridurre la vicenda del 6 gennaio a un’iniziativa autonoma di qualche centinaia di estremisti fuori controllo. In questo modo, le loro stesse responsabilità possono restare relativamente nascoste. Il quadro in cui si inserisce l’assalto al Congresso è al contrario ben più ampio e le accuse più gravi vanno indirizzate precisamente verso la Casa Bianca e determinati ambienti del Partito Repubblicano. Cruz e Hawley sono ad esempio i due senatori repubblicani che avevano votato contro la certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden, nonostante la conferma dei risultati da parte di tutti gli stati americani e la bocciatura dei numerosi ricorsi presentati da Trump e dai suoi sostenitori.

C’è un episodio risalente al 6 gennaio, emerso durante il dibattimento sull’impeachment, che contribuisce tra gli altri a dimostrare il ruolo avuto da Trump e dai membri del Congresso che hanno appoggiato il tentativo di ribaltare il responso delle urne. Proprio mentre i rivoltosi trumpiani si trovavano all’interno dell’edificio, il senatore repubblicano dello Utah, Mike Lee, aveva ricevuto una telefonata dal presidente che, però, desiderava parlare con un altro senatore, Tommy Tuberville dell’Alabama. A testimonianza delle priorità del presidente, nel pieno dell’assalto quest’ultimo intendeva discutere con Tuberville la strategia da mettere in atto per fermare la certificazione della vittoria di Biden. Una strategia che, con ogni probabilità, doveva passare dall’azione violenta dei suoi sostenitori già dentro l’edificio del Congresso.

L’esposizione così circostanziata dei fatti contrasta con il carattere circoscritto della procedura di impeachment promossa dal Partito Democratico. La durissima denuncia di Trump manca infatti quasi totalmente del contesto politico nel quale si inserisce uno dei fatti più gravi della storia domestica degli Stati Uniti. I democratici hanno in altre parole omesso il collegamento tra quanto accaduto il 6 gennaio e le collusioni dell’ex presidente e di almeno una parte del Partito Repubblicano con il sottobosco suprematista di estrema destra che ha coordinato e condotto l’assalto al Congresso con intenzioni eversive. Questi legami durano da tempo e avevano fatto da sfondo alla campagna di Trump per delegittimare le elezioni e creare le condizioni per una spallata autoritaria già nei mesi precedenti l’appuntamento del 3 novembre scorso.

L’obiettivo dei promotori dell’impeachment sembra essere quindi di ridurre la vicenda a un’iniziativa scaturita dalla sola volontà di Trump di restare al suo posto malgrado la sconfitta nelle presidenziali. Questo atteggiamento ha del clamoroso se si considera che un certo numero di senatori repubblicani, complici zelanti delle trame golpiste di Trump, siedono tranquillamente ai loro posti e in qualità di giudici in un processo che dovrebbe invece vederli come co-imputati dell’ex presidente.

Identico discorso vale per l’insabbiamento delle responsabilità all’interno delle forze di sicurezza americane, dall’FBI alla Guardia Nazionale, vale a dire, rispettivamente, il dipartimento di Giustizia e il Pentagono. Gli interrogativi sul grave ritardo dell’intervento per mettere in sicurezza il Congresso e le scarse misure preventive adottate, nonostante l’attacco fosse stato ampiamente propagandato in rete nei giorni precedenti, resteranno senza risposta alla conclusione del secondo impeachment dell’era Trump.

Le scelte dei leader democratici sono d’altronde dettate da esigenze ben precise. La prima è quella di proteggere il Partito Repubblicano da un processo pubblico in grado di dimostrare i legami che moltissimi dei suoi membri intrattengono con milizie e organizzazioni della destra estrema. Una simile condotta, da parte dei democratici, serve in definitiva a preservare uno dei due pilastri politici della residua stabilità di un sistema profondamente screditato e ultra-classista. Da un’altra prospettiva, gli sforzi dei democratici per difendere il Partito Repubblicano sono da collegare alla necessità di conservare una sostanziale unità della classe dirigente americana per continuare a implementare politiche impopolari, ma che rispondono agli interessi di chi detiene realmente in potere in America.

Impostare un processo pubblico di ampio respiro che indaghi e dimostri la deriva fascista del Partito Repubblicano comporterebbe inoltre un altro rischio per i democratici. Vale a dire il far emergere le cause della crescente mobilitazione dell’estrema destra, in ultima analisi dovuta alla chiusura ermetica di un sistema che sconfina nell’oligarchia e rende di fatto impossibile la penetrazione di qualsiasi istanza di cambiamento in senso progressista.

Il secondo impeachment contro Trump si risolverà dunque in un altro nulla di fatto, così come farà ben poco per limitare l’ascendente dell’ex presidente sul Partito Repubblicano. La stessa formula del procedimento, concordata in maniera bipartisan al Senato, non lascia spazio a indagini serie e approfondite sulle implicazioni dei fatti del 6 gennaio. Il processo andrà rapidamente verso il suo epilogo prestabilito. Dopo un’ultima giornata dedicata all’accusa, sarà la volta dei legali della difesa, che, da un lato, ridurranno l’incitazione alla rivolta da parte di Trump alla libertà di espressione di cui gode anche quest’ultimo, mentre dall’altro punteranno sulla tesi senza fondamento dell’incostituzionalità dell’impeachment ai danni di un ex presidente. Alla fine, il verdetto del Senato potrebbe arrivare in tempi record, forse addirittura già nel fine settimana.

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