L’assoluzione incassata lo scorso fine settimana da Donald Trump nel secondo impeachment del suo mandato ha favorito il ricompattarsi del Partito Repubblicano attorno alla figura dell’ex presidente. Allo stesso tempo, quei senatori e deputati che hanno votato a favore dell’incriminazione per “incitamento all’insurrezione” sono al centro di provvedimenti di censura che preannunciano già una sanguinosa lotta intestina nel partito in vista dei futuri appuntamenti elettorali.

 

Lo scontro che minaccia di esplodere cova da tempo sotto la cenere ed era stato finora contenuto dalla presenza di Trump alla Casa Bianca, nonché dallo strapotere mediatico dello stesso ex presidente e dalla conseguente emarginazione delle forze più “moderate” all’interno del partito. I rappresentanti di quest’ultima anima del “GOP” avevano però visto nel processo di impeachment un’occasione per ridimensionare, se non per liquidare del tutto, la fazione di estrema destra che fa capo a Trump. L’operazione non è tuttavia riuscita e ha anzi portato alla luce un conflitto che rischia seriamente di spaccare il partito.

Il primo serio segnale della possibile guerra civile tra i repubblicani è arrivato martedì con la prima importante dichiarazione politica di Trump dopo l’addio alla Casa Bianca e la clamorosa espulsione da Twitter. L’ex presidente ha non a caso attaccato frontalmente il leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell, di fatto il secondo repubblicano più potente a livello nazionale.

Trump si è scagliato contro il veterano senatore del Kentucky dopo che quest’ultimo aveva tenuto un discorso per denunciare l’ex presidente al termine del procedimento di impeachment. McConnell aveva votato contro la condanna di Trump, sostenendo senza fondamento che l’incriminazione al Congresso di un presidente che ha esaurito il proprio mandato risulta essere incostituzionale. Contemporaneamente, l’ex leader di maggioranza al Senato aveva affermato senza mezzi termini che Trump è da considerare “moralmente responsabile di avere provocato” l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso.

Dopo avere elencato una serie di definizioni poco lusinghiere circa la personalità di McConnell, l’ex presidente è passato all’attacco politico, avvertendo il suo partito che se i senatori repubblicani non opereranno un cambiamento della leadership le sconfitte elettorali non potranno che moltiplicarsi. Se il messaggio non fosse stato chiaro a sufficienza, Trump ha poi annunciato che nelle primarie repubblicane in vista dei prossimi appuntamenti con le urne si adopererà per appoggiare candidati di estrema destra, da lanciare contro quelli promossi dall’establishment tradizionale del partito.

Trump ha ricordato ai suoi sostenitori la “dedizione di McConnell per lo status quo”, con l’obiettivo di accreditarsi nuovamente come una sorta di rottamatore della classe politica compromessa e ultra-corrotta di Washington. A questa linea d’attacco, che gli ha in larga misura permesso di vincere le elezioni nel 2016, Trump ha accostato quella del nazionalismo con sfumature razziste. Ciò è apparso chiaro nel riferimento ai presunti “interessi” di McConnell derivanti dalle origini cinesi della moglie, Elaine Chao, peraltro membro del gabinetto repubblicano uscente con l’incarico di segretaria ai Trasporti.

Sul fronte opposto, ovvero quello dei repubblicani più “moderati”, sono palpabili le ansie per la piega che potrebbe prendere lo scontro interno dopo l’impeachment e la recente presa di posizione di Trump. Voci di una possibile scissione con la creazione di un nuovo partito di centro-destra si sono rincorse nei giorni scorsi, ma il sistema bloccato americano finirà quasi certamente per scoraggiare un’avventura di questo genere che favorirebbe soltanto i democratici.

Numerose sono piuttosto le voci di quanti auspicano una risoluzione pacifica del conflitto tra le fazioni del partito, anche se la formula proposta assomiglia molto a una cooptazione dell’ala trumpiana più estrema, se mai depurata dagli eccessi comportamentali dell’ex presidente. Una conclusione simile appare improbabile e illusoria, soprattutto perché riconduce il conflitto a questioni esteriori che sono però tali solo agli occhi dei leader repubblicani.

In altre parole, è difficile sostenere che Trump e la sua cerchia abbiano un qualche genuino interesse per gli americani “comuni” a cui fanno appello, ma è innegabile che la retorica ultra-populista su cui punta l’ex presidente tocchi un nervo scoperto della società americana. In questo senso, la base trumpiana, fatta di una classe media e medio-bassa fortemente confusa e disorientata, intravede nella destra repubblicana personificata dal tycoon di New York uno strumento per far saltare l’establishment di Washington, di cui i leader del partito come McConnell sono parte integrante.

Questa fazione del partito è effettivamente radicata agli ambienti di potere più screditati, dalla galassia “neo-con” a determinati interessi economico-finanziari, e non ha di conseguenza soluzioni da offrire ai fans di Trump sedotti dallo slogan del “Make America Great Again” (“MAGA”). Per questa ragione, appare più probabile una resa dei conti interna al Partito Repubblicano che si consumerà in primo luogo nelle elezioni primarie dei prossimi mesi e anni per cariche nazionali e locali.

Che l’ascendente di Trump sul “GOP” sia fortissimo malgrado la sconfitta incassata contro Joe Biden è comunque evidente da svariati segnali. Ad esempio, il leader dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy, lo scorso mese di gennaio aveva fatto un’umiliante marcia indietro dopo la denuncia di Trump espressa all’indomani dell’assalto al Congresso. Il deputato della California si era recato infatti nella residenza di Mar-a-Lago, in Florida, per fare ammenda e, ufficialmente, concordare la strategia in previsione delle elezioni per il Congresso del 2022.

Ancora più significativi sono stati i provvedimenti decisi contro coloro che hanno votato a favore dell’impeachment. Censure e condanne sono arrivate non a caso dalle sezioni locali del partito, a conferma del radicamento delle tendenze trumpiane alla periferia del sistema. Sei dei sette senatori “dissidenti” che hanno votato assieme ai democratici contro Trump sono stati così oggetto di ritorsioni politiche che finiranno per pesare sulle loro ambizioni elettorali. Alcuni di essi hanno già deciso di non correre per la rielezione nei prossimi anni, con ogni probabilità proprio per evitare la battaglia che li attenderebbe con la destra del partito nelle primarie.

Non c’è dubbio che la rapidità del consolidamento dell’ala trumpiana all’interno del Partito Repubblicano sia in parte favorita dalla docilità con cui i democratici hanno perseguito il secondo impeachment dell’ex presidente. Il loro comportamento si spiega in definitiva con la necessità di preservare il partito teoricamente rivale per impedire la destabilizzazione o il completo tracollo del sistema. L’obiettivo era più che altro quello di colpire soltanto Trump e la sua cerchia, riabilitando l’establishment del partito per rilanciare in maniera bipartisan gli interessi del capitalismo americano sul fronte domestico e internazionale.

La strategia sembra però destinata a fallire, anche se le divisioni tra i repubblicani potrebbero portare qualche beneficio elettorale nell’immediato al Partito Democratico. Quello repubblicano, in ogni caso, continuerà a essere lacerato dalle divisioni e l’estrema destra trumpiana finirà per guadagnare terreno, costringendo gli Stati Uniti a fare i conti nuovamente con i rischi della deriva fascista per ora sventata dopo il fallito assalto senza precedenti contro l’edificio che ospita il Congresso americano.

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