Il presidente americano Biden ha presentato mercoledì un piano relativamente ambizioso per il rinnovamento delle infrastrutture degli Stati Uniti nel quadro di un progetto almeno decennale che, nelle intenzioni ufficiali, dovrebbe rilanciare il ruolo del governo federale in ambito economico e sociale. Sull’effettiva attuazione del piano, di cui si conosce per ora solo la prima tranche, pesano però molteplici e pesanti incognite. La sua stessa natura “rivoluzionaria”, anche nel caso l’intero provvedimento dovesse andare in porto, è a dir poco discutibile, sia per quanto riguarda le possibilità reali di far fronte ai problemi che promette di risolvere sia per l’impatto strutturale tutto sommato trascurabile che avrebbe su un sistema improntato all’ultra-liberismo e dominato dai grandi interessi economico-finanziari.

 

L’amministrazione democratica ha deciso di propagandare la proposta con il nome di “American Jobs Plan”, dimostrando se non altro come a motivare questa e alcune altre iniziative nella fase iniziale della presidenza Biden siano le preoccupazioni per l’impatto sulla stabilità sociale della crisi prodotta dalla pandemia. Media e commentatori liberal insistono anche nel raccontare di una sorta di “nuovo corso”, inaugurato dal gabinetto di Joe Biden e dalla maggioranza democratica, tendente sempre più verso sinistra.

Se è in atto un parziale cambiamento di rotta rispetto all’amministrazione Trump in alcuni settori, evidentemente in risposta alla richiesta diffusa di politiche progressiste, gli eventi dei mesi scorsi non hanno neanche lontanamente evidenziato una qualche rigenerazione del Partito Democratico che giustifichi un’evoluzione di questo genere. Per averne conferma, basti pensare ai precedenti e ai dati anagrafici dell’inquilino della Casa Bianca o agli ambienti del partito che avevano manovrato per imporlo come candidato alla presidenza e affondare qualsiasi possibile alternativa anche solo vagamente progressista.

In ogni caso, il piano di Biden vale 2.250 miliardi di dollari e la fetta più consistente (650 miliardi) dovrebbe essere destinata alla costruzione e all’ammodernamento delle vie di comunicazione americane, molte delle quali in stato di serio degrado, dai ponti alle autostrade, dai porti ai trasporti su rotaia. L’importo è apparentemente ingente, ma va considerato che sarà distribuito su un decennio e che una recente stima indipendente aveva valutato in almeno 2.600 miliardi la somma che servirebbe per rinnovare il sistema infrastrutturale americano nel suo complesso.

Altri 300 miliardi sono previsti per il rilancio dell’industria manifatturiera USA, che si tradurranno sostanzialmente in sovvenzioni per le aziende. 300 miliardi per ristrutturazioni edilizie e ulteriori 400 a una voce di spesa di diverso genere, relativa cioè all’assistenza a domicilio di anziani e disabili. L’elenco dei potenziali stanziamenti prosegue poi con 100 miliardi ciascuno per lo sviluppo della banda larga in tutto il paese, il rafforzamento della rete elettrica, la ristrutturazione e la costruzione di scuole.

Due importanti settori in cui il governo dovrebbe investire sono particolarmente rivelatori delle intenzioni della Casa Bianca. 180 miliardi saranno riservati a “ricerca e sviluppo” in ambito tecnologico, con particolare attenzione per chip e semiconduttori; 174 invece per la promozione del mercato delle auto elettriche e la costruzione di stazioni di ricarica. Entrambi i settori risultano essere tra i più caldi nella competizione con la Cina e, a un livello più ampio, questo obiettivo lo ha confermato anche la portavoce del presidente, Jen Psaki, nel discutere con la stampa il piano di investimenti.

Il contenuto “progressista” del pacchetto promosso da Biden dovrebbe essere garantito inoltre dalla provenienza dei fondi che andrebbero a finanziarlo. La Casa Bianca intende introdurre un aumento dell’aliquota minima applicata alle corporations. La misura è anche in questo caso meno radicale di quanto possa apparire. L’ipotesi è infatti di passare dall’attuale 21% al 28%, ma va ricordato che Trump nel 2017 l’aveva ridotta dal 35%. La pressione fiscale teorica per le aziende private resterebbe così molto al di sotto di quanto lo era prima del taglio alle tasse della precedente amministrazione.

Biden ha comunque respinto richieste per misure più coraggiose in questo senso provenienti dalla sinistra del partito, ma nella seconda fase del suo piano dovrebbe scattare un aumento della tassazione dei redditi superiori ai 400 mila dollari l’anno. I fondi che ne deriveranno dovrebbero finanziare quindi un nuovo pacchetto di interventi, che verrà presentato il prossimo mese e sarà dedicato alle “infrastrutture sociali” (sanità, educazione).

L’ostacolo più immediato all’attuazione di tutte queste misure è di natura politica. I democratici detengono maggioranze estremamente risicate in entrambi i rami del Congresso e al Senato dovranno oltretutto ricorrere a una manovra procedurale per aggirare la consueta norma che richiede 60 voti per approvare (quasi) tutte le leggi che approdano in aula. I dieci voti repubblicani che sarebbero necessari resteranno un miraggio, soprattutto perché questo partito non intende nemmeno considerare un aumento delle tasse per il business e i ricchi americani.

L’alternativa è l’approvazione con i soli voti democratici, inserendo il pacchetto in una legge collegata in qualche modo al bilancio federale. In questo modo sarebbe sufficiente una maggioranza semplice, esattamente quella su cui può contare il Partito Democratico, ma alcune misure non riconducibili a questioni di bilancio dovrebbero essere cancellate. Questo procedimento è stato adottato recentemente dalla leadership democratica del Senato per licenziare un pacchetto di stimolo all’economia da quasi duemila miliardi di dollari.

Anche dentro il Partito Democratico ci sono peraltro malumori sulla portata dei provvedimenti voluti da Biden e sull’ipotesi del ritocco del carico fiscale. I leader del partito al Congresso possono permettersi pochissime o nessuna defezione e nelle prossime settimane ci saranno dunque accese trattative per aggiungere o stralciare determinate misure, in modo da arrivare a un compromesso che, con ogni probabilità, sarà alla fine al ribasso. Com’è ovvio, le preoccupazioni per il deficit e le esorbitanti uscite dalle casse federali non emergono mai quando si tratta di approvare, ad esempio, il bilancio del Pentagono che, in media, corrisponde in un anno a tre volte l’importo previsto per lo stesso periodo di tempo dal decennale “American Jobs Plan” di Biden.

L’enfasi con cui viene discusso sulla stampa ufficiale americana il pacchetto di investimenti proposto dal presidente è in larga misura fuori luogo. Nella migliore delle ipotesi, il risultato finale vedrà un ridimensionamento delle ambizioni democratiche per via delle questioni politiche di cui si è appena parlato. Il vero ostacolo all’implementazione di un progetto di ampio respiro, che dovrebbe in teoria invertire la tendenza al declino sociale-industriale-infrastrutturale degli Stati Uniti, è tuttavia di ben altra natura.

Non è cioè chiaro, per usare un eufemismo, come un sistema in crisi e fondato sul turbo-capitalismo, che da decenni favorisce fenomeni come deindustrializzazione e finanziarizzazione dell’economia, con conseguente impoverimento di massa e deterioramento di infrastrutture e servizi pubblici, possa virtualmente dall’oggi al domani far emergere una forza di cambiamento progressista in grado di reperire le risorse necessarie a rilanciare l’America sulla base di principi di equità e giustizia sociale.

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