Da almeno un paio di mesi a questa parte stanno arrivando segnali preoccupanti dalle regioni dell’Ucraina orientale che sembrano indicare un’imminente riesplosione del conflitto tra le forze di Kiev, appoggiate dall’Occidente, e i separatisti filo-russi del Donbass. Su entrambi i fronti sono in corso massicci spostamenti di truppe e armamenti, così come si stanno moltiplicando gli scontri a fuoco che hanno già lasciato decine di vittime sul campo. Prevedibilmente, il governo ucraino e la NATO continuano a parlare di “provocazioni” russe e di preparativi per un’offensiva pilotata da Mosca, anche se in realtà le responsabilità per il precipitare della situazione sono tutte di Kiev e dell’Occidente.

 

A gettare nuova benzina sul fuoco è stato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, quando martedì ha sostenuto, durante un colloquio telefonico con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, che l’unico modo per mettere fine alla guerra è l’ingresso del suo paese nell’Alleanza Atlantica. Come se non bastasse, Zelensky ha aggiunto un invito ai paesi membri a rafforzare la loro presenza militare nella regione del Mar Nero, poiché la nuova realtà che verrebbe così a crearsi costituirebbe un “deterrente” nei confronti della Russia.

Ben lontana dall’essere una soluzione alla guerra, questa ipotesi peggiorerebbe al contrario la situazione, con conseguenze molto pesanti in primo luogo proprio per l’Ucraina. Il Cremlino ha infatti messo in guardia dall’eventuale adesione di Kiev alla NATO e gli stessi destinatari del messaggio di Zelensky hanno risposto con cautela. Stoltenberg ha ribadito l’obiettivo di garantire “la sovranità e l’integrità territoriale” dell’Ucraina, ma si è limitato a impegnarsi solo per il mantenimento della attuale “partnership”. Pressoché identica è stata la reazione di Washington. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha rimandato l’eventuale decisione sull’ingresso di Kiev nella NATO all’Alleanza stessa.

La questione si inserisce in un clima già caldissimo e alimentato da una serie di eventi attentamente studiati per creare l’impressione di una sorta di stato d’assedio in cui si ritroverebbe l’Ucraina. Settimana scorsa, il presidente americano Biden aveva discusso telefonicamente con Zelensky della situazione al confine orientale, assicurandogli il pieno appoggio degli Stati Uniti. Il giro di consultazioni del presidente ucraino aveva incluso, tra gli altri, anche il premier britannico, Boris Johnson, e in tutti i casi i colloqui si erano conclusi sulla stessa nota, quella della denuncia della “aggressione” russa e dell’impegno per la difesa del paese dell’ex Unione Sovietica.

Il dipartimento di Stato americano ha a sua volta sollevato la questione dei movimenti militari russi nelle aree di confine coinvolte nel conflitto, chiedendo a Mosca di fornire una spiegazione per queste manovre in corso. Il governo russo ha fatto sapere martedì di avere chiarito la situazione nel Donbass all’amministrazione Biden, in particolare riguardo la posizione di Mosca. È evidente che il Cremlino si aspetti il lancio di un’operazione da parte delle forze armate ucraine per provare a riprendersi le regioni rispettivamente sotto il controllo delle auto-proclamate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk.

Lo scenario che potrebbe prospettarsi è simile a quello appena precedente la guerra tra Russia e Georgia nell’agosto del 2008, esplosa in seguito all’iniziativa dell’allora presidente Saakashvili su istigazione del governo americano. Mosca non intende in nessun modo e non ha alcun interesse a reinnescare il conflitto in Ucraina o a invadere questo paese, ma si sta chiaramente preparando per una possibile guerra e, quali che siano le conseguenze, non permetterà un ritorno puro e semplice di Donetsk e Lugansk sotto il controllo di Kiev, né tantomeno della Crimea, annessa dalla Russia nel 2014 a seguito di un referendum popolare.

Le accuse contro Mosca per avere mobilitato le proprie forze armate al confine con l’Ucraina servono anche a far passare in secondo piano i preparativi di guerra da parte del governo di Kiev con l’assistenza della NATO. Solo negli ultimi giorni sono atterrati in Ucraina numerosi velivoli americani e britannici con equipaggiamenti militari, provenienti dalle basi situate in Germania, in Polonia e, almeno in un caso, direttamente dagli USA.

È anche l’atteggiamento del governo del presidente Zelensky in ogni caso a dimostrare il grado di interesse di Kiev e degli alleati occidentali per una soluzione pacifica del conflitto. Questa settimana il ministero degli Esteri ucraino ha fatto sapere ad esempio che non parteciperà ulteriormente alle riunioni del gruppo di contatto, formato da Russia, OSCE e dalla stessa Ucraina, che tiene i colloqui di pace a Minsk. La ragione ufficiale del rifiuto è da collegare alla natura del governo bielorusso, ritenuto da Kiev sotto l’influenza di Mosca.

Il presidente Zelensky, più in generale, ha da tempo abbandonato la promessa di chiudere il rovinoso conflitto nell’est del paese, grazie alla quale aveva vinto agevolmente le elezioni del 2019. La linea del presidente è ormai influenzata dagli ambienti più oltranzisti e ferocemente anti-russi, come dimostrano i recenti documenti strategici prodotti dal suo governo, quasi certamente con la benedizione di Washington, uno per riconquistare la Crimea e l’altro per disegnare il percorso verso l’adesione alla NATO, con la conseguente preparazione a un conflitto con la Russia.

Nella stessa direzione vanno sostanzialmente anche le misure sempre più repressive sul fronte interno, dirette contro l’opposizione politica e la popolazione russofona. D’altra parte, l’ipoteca sul governo di Kiev degli ambienti di estrema destra e neo-nazisti, su cui si era appoggiato il colpo di stato orchestrato da Washington e Berlino nel 2014, è tuttora fortissima. Ciò è confermato ad esempio dal fatto che la carica di ministro dell’Interno è tuttora occupata da Arsen Avakov, notoriamente legato al Battaglione Azov, milizia neo-nazista integrata nelle forze regolari e impegnata sul fronte del Donbass.

Il riesplodere della crisi in Ucraina si inserisce in un contesto geo-politico segnato dall’intensificazione dell’offensiva americana contro la Russia in concomitanza con l’inizio del mandato presidenziale di Joe Biden. La mossa di Washington e Kiev appare estremamente pericolosa e, se anche avesse come obiettivo non tanto la guerra ma il tentativo di far desistere la Russia dall’appoggiare i separatisti del Donbass, rischia di innescare un conflitto dalle conseguenze difficili da calcolare. La serietà della situazione si evince anche dal nervosismo che traspare dal governo russo. Esponenti militari e politici, così come i media ufficiali russi, continuano discutere apertamente di un’operazione militare scatenata da Kiev, forse già dalle prossime settimane.

Il limite fino a dove gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa intenderanno spingersi è tutto da verificare. Ma gli obiettivi dell’amministrazione Biden appaiono piuttosto chiari. In gioco non c’è soltanto il futuro dell’Ucraina come avamposto NATO per l’accerchiamento e l’aggressione della Russia, ma anche i rapporti transatlantici nel quadro delle dinamiche multipolari in atto, dentro le quali Mosca, così come l’Europa, svolge un ruolo determinante.

La ripresa delle ostilità in Ucraina, anche sotto forma di un conflitto a intensità relativamente bassa, scioglierebbe almeno in teoria svariati dilemmi strategici di Washington, salvo poi fare i conti con conseguenze potenzialmente rovinose. In primo luogo amplierebbe ancora di più il divario tra Russia ed Europa, fornendo la giustificazione per il ricompattamento dei membri NATO e la conseguente espansione della presenza militare americana nel vecchio continente, utile naturalmente anche a ingrossare i profitti dell’industria bellica a stelle e strisce.

Un altro risultato teorico per gli USA sarebbe il probabile definitivo affondamento del gasdotto Nord Stream 2, che dovrebbe raddoppiare le forniture di gas naturale dalla Russia alla Germania, a discapito delle attuali rotte di terra che passano anche attraverso l’Ucraina. L’opera è da tempo nelle mire degli Stati Uniti e il suo boicottaggio è considerato cruciale sia per impedire qualsiasi processo di integrazione tra Germania e Russia sia per aprire il mercato europeo al più costoso gas liquefatto americano.

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