La questione dello status di Taiwan sta diventando rapidamente l’elemento più infuocato nella rivalità tra Cina e Stati Uniti in questi primi mesi dell’amministrazione Biden. Stampa e commentatori americani insistono per lo più nel denunciare l’escalation di iniziative intimidatorie da parte di Pechino nei confronti del governo di Taipei, anche se è in realtà proprio Washington a mettere pericolosamente in discussione i fragili equilibri che hanno assicurato pace e stabilità nello stretto di Taiwan in questi ultimi quattro decenni.

 

Le provocazioni USA sono aumentate vertiginosamente almeno dalla seconda parte del mandato di Donald Trump. Gli strumenti preferiti per fare pressioni sulla Cina sono stati e continuano a essere la vendita di armi e le visite reciproche di esponenti dei governi di Stati Uniti e Taiwan. Washington riconosce formalmente la dottrina di “una sola Cina” e dalla svolta della fine degli anni Settanta del secolo scorso intrattiene rapporti diplomatici ufficiali solo con Pechino. Allo stesso tempo, in base al “Taiwan Relations Act” del 1979, si impegna a garantire la difesa dell’isola, principalmente attraverso la vendita di armi.

L’ultimo evento che ha nuovamente contribuito a surriscaldare gli animi è stata la visita a Taiwan di tre giorni, iniziata mercoledì, di tre inviati del presidente Biden: l’ex senatore democratico Chris Dodd e gli ex vice-segretari di Stato Richard Armitage e James Steinberg. La trasferta di questi ultimi coincide con il 42esimo anniversario del già citato “Taiwan Relations Act” e, prevedibilmente, è stata subito denunciata da un comunicato del governo di Pechino.

I contatti diplomatici tra USA e Taiwan, almeno fino a poco tempo fa, sono tradizionalmente limitati al minimo o, ad alto livello, evitati quasi del tutto, proprio per non incorrere nell’ira della Cina che non riconosce la possibilità di Taipei di condurre una politica estera autonoma in quanto provincia “ribelle” appartenente alla madrepatria. Quando gli Stati Uniti intendono mettere in atto provocazioni calcolate, tuttavia, organizzano incontri come quello di questa settimana che, spesso, restano sul filo dell’ambiguità e non implicano formalmente scambi diplomatici ufficiali.

Negli ultimi tempi, le amministrazioni Trump e Biden si sono spinte però anche oltre, con tutte le conseguenze del caso in termini di tensioni con Pechino. Il primo era arrivato a inviare a Taiwan lo scorso agosto il ministro della Salute, Alex Azar, cioè il membro di un governo americano più autorevole a recarsi sull’isola in veste ufficiale da quarant’anni a questa parte. Biden, invece, ha invitato alla cerimonia del proprio insediamento a gennaio l’ambasciatore de facto di Taiwan negli USA. A fine marzo, inoltre, l’ambasciatore americano a Palau, John Hennessey-Niland, aveva accompagnato a Taipei il presidente del piccolo arcipelago del Pacifico, Surangel Whipps, diventando anch’egli il primo ambasciatore in carica del suo paese a visitare Taiwan.

Il dipartimento di Stato dell’amministrazione in carica ha anche implementato recentemente una misura che ricalca la linea trumpiana in merito alle relazioni con Taiwan. Venerdì scorso è stata cioè diramata una direttiva che incoraggia i rapporti tra il governo USA e Taiwan. Vista l’estrema delicatezza della questione, il dipartimento di Stato ha specificato che Washington continuerà formalmente a rispettare il principio di “una sola Cina”.

Dodd, Armitage e Steinberg giovedì hanno incontrato la presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, la quale non ha fatto nulla per calmare le ansie di Pechino. Tsai, il cui partito ha come obiettivo l’indipendenza di Taiwan, ha parlato delle operazioni militari cinesi nella regione definendole una minaccia alla pace e alla stabilità. Per contrastare queste azioni, il suo governo intende continuare a cooperare con paesi che condividono gli stessi principi, a cominciare dagli Stati Uniti.

Negli ultimi mesi, Taiwan ha ripetutamente condannato i pattugliamenti aerei e navali cinesi nelle acque dello stretto che separa l’isola dalla madrepatria. La stampa USA ha poi insistito in questi giorni nel denunciare l’ingresso nella giornata di lunedì di 25 aerei da guerra cinesi nella cosiddetta “zona di identificazione di difesa aerea” (ADIZ) taiwanese. Martedì, poi, Pechino ha annunciato l’inizio di esercitazioni di “combattimento” che dureranno cinque giorni lungo la costa che guarda verso Taiwan.

Non c’è dubbio che l’intensificazione delle manovre cinesi implichino un messaggio molto chiaro a Taiwan e Washington per astenersi da iniziative troppo radicali, in particolare che facciano intravedere l’intenzione di dichiarare unilateralmente l’indipendenza dell’isola. Tuttavia, la Cina non ha interesse a rompere l’equilibrio dei rapporti con Taipei, ma agisce interamente in conseguenza delle provocazioni americane e del governo di Tsai Ing-wen. D’altra parte, la questione di Taiwan è semplicemente vitale per la Cina e tutti i suoi leader hanno sempre messo in chiaro che non esiteranno a usare la forza se sarà fatto anche solo un passo concreto verso l’indipendenza.

Un altro aspetto estremamente delicato del dibattito è l’opportunità o meno per il governo americano di liquidare il principio della “ambiguità strategica” riguardo Taiwan. Questa posizione indefinita lascia nel vago la questione dell’eventuale intervento militare degli Stati Uniti a difesa di Taipei in caso di una guerra o di un’invasione dell’isola da parte della Cina. La “ambiguità strategica” ha di fatto garantito la pace in quest’area del continente asiatico negli ultimi quattro decenni, ma a Washington si stanno moltiplicando le richieste di quanti vorrebbero un cambio di rotta da parte di Biden e il passaggio a una condotta improntata alla “chiarezza strategica”.

Quest’ultima decisione, se adottata, si tradurrebbe nella garanzia della disponibilità degli USA a entrare in guerra contro la Cina a fianco di Taiwan. Oltre a essere una ricetta per un autentico disastro in caso di uno scontro militare tra Pechino e Taipei, una simile scelta strategica da parte di Washington rappresenterebbe un’immediata pericolosissima provocazione. Un’analisi pubblicata dal sito web del think tank Quincy Institute for Responsible Statecraft ha spiegato come un eventuale impegno esplicito americano per la difesa di Taiwan “sarebbe un modo per provocare quell’invasione [cinese] che pretenderebbe invece di prevenire”.

Secondo lo stesso autore dell’articolo, un impegno ufficiale a livello pubblico per la difesa di Taiwan sarebbe visto dalla Cina come “il riconoscimento dell’indipendenza dell’isola o un segnale che gli Stati Uniti sono pronti a sostenere una dichiarazione d’indipendenza” da parte di Taipei. In una situazione di questo genere, Pechino percepirebbe “una violazione della propria sovranità” e potrebbe reagire in maniera dura, ovvero ricorrendo alla forza.

L’accelerazione di Washington sulla questione di Taiwan rientra nel quadro più generale della rivalità con la Cina e risponde all’esigenza della classe dirigente americana di cercare di contrastare l’avanzata di una potenza che minaccia sempre più la supremazia degli Stati Uniti in ambito militare, economico e tecnologico. Taiwan sta mettendo quasi in secondo piano gli altri principali elementi di scontro tra Washington e Pechino, tutti alimentati deliberatamente dagli USA, come il Mar Cinese Meridionale, la penisola di Corea, Hong Kong e lo Xinjiang.

Le ragioni sono da ricercare, da un lato, nel già ricordato rilievo che ha questa isola per la Cina, visto che va al cuore della sua stessa sovranità, e dall’altro alla posizione strategica privilegiata di Taiwan in caso di guerra tra Washington e Pechino. Quest’ultimo fattore comporta ovviamente anche conseguenze a dir poco rovinose per i 24 milioni di abitanti taiwanesi nell’eventualità di un conflitto.

L’ipotesi peggiore non è così inverosimile e ad ammetterlo sono stati recentemente anche alti ufficiali americani. Durante un’audizione al Congresso nel mese di marzo, il comandante uscente del “comando indo-pacifico” USA, ammiraglio Phil Davidson, aveva avvertito che una guerra tra Stati Uniti e Cina per Taiwan è del tutto possibile “entro i prossimi sei anni”. Il suo successore, ammiraglio John Aquilino, nell’udienza per la sua conferma al Senato aveva a sua volta affermato che un conflitto per la stessa ragione “è molto più vicino di quanto si possa credere”.

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