Gli eventi di queste settimane sull’asse Mosca-Washington hanno evidenziato un atteggiamento a tratti contraddittorio dell’amministrazione Biden che, se pure si inserisce in un’inclinazione ancora decisamente aggressiva nei confronti della Russia, lascia intravedere quanto meno l’esistenza di un certo grado di conflitto sugli orientamenti strategici all’interno dell’apparato di governo americano. I segnali di un possibile ripensamento delle politiche ferocemente anti-russe restano in ogni caso sullo sfondo, mentre sembrano moltiplicarsi i fronti di attacco contro Putin e il Cremlino, a dimostrazione dell’influenza che continuano a esercitare i “falchi” dell’establishment a stelle e strisce sul presidente democratico.

 

Navalny, Repubblica Ceca, Mar Nero e Bielorussia sono i nodi più caldi di questi giorni, segnati anche da una relativa de-escalation della crisi ucraina che era apparsa invece sull’orlo del precipizio fino alla settimana scorsa. Per quanto riguarda il “dissidente” e oppositore di Putin, le sue condizioni di salute si sarebbero notevolmente aggravate in seguito a uno sciopero della fame attuato per denunciare la detenzione in un carcere russo. Navalny era stato condannato a una pena di oltre due anni nel mese di febbraio all’indomani del ritorno in patria dopo la vicenda del molto presunto avvelenamento e il successivo ricovero in Germania.

I suoi medici chiedono di poterlo visitare in quanto il suo stato fisico sarebbe gravissimo, tanto da poterne provocare il decesso “in qualsiasi momento”. A favore di Navalny si è scatenata un’accesissima campagna mediatica in Occidente. Il presidente americano Biden ha condannato come “totalmente inaccettabile” il trattamento di Navalny e la sua eventuale morte avrebbe serie “conseguenze” per il governo di Mosca, indicato esplicitamente dalla Casa Bianca come il responsabile della situazione del leader dell’opposizione russa.

Oltre all’appoggio bipartisan della classe politica USA, Navalny ha incassato quello dell’Europa. Il responsabile della politica estera UE Josep Borrell, recentemente protagonista di un’umiliante lavata di testa a Mosca per le ingerenze negli affari interni russi sempre a proposito del caso Navalny, è anch’egli intervenuto sulla vicenda per chiedere che a quest’ultimo vengano garantite tutte le cure mediche necessarie e per avvertire Putin che anche Bruxelles lo riterrà responsabile di quanto dovesse accadergli.

L’indignazione occidentale e, soprattutto, europea è niente meno che rivoltante. Neanche una minima parte delle denunce per il trattamento di Navalny è stata spesa in questi anni per sostenere la causa di Julian Assange, il vero e più importante detenuto politico odierno, non in una colonia penale siberiana ma in un carcere di massima sicurezza alla periferia di Londra. Anche senza soffermarsi sui meriti di Assange e sulla natura ultra-reazionaria delle posizioni di Navalny, la realtà è che del “dissidente” russo alle cancellerie o alle redazioni occidentali non importa molto più di Assange, se non nella misura in cui può essere utilizzato o manipolato per colpire l’occupante del Cremlino.

Proprio per questa ragione, la polemica su Navalny è tornata a infiammarsi in parallelo alle tensioni in fase ascendente tra la Russia e i paesi NATO. Una decina di giorni fa, nel pieno dell’escalation nella regione ucraina del Donbass, gli Stati Uniti avevano programmato l’ingresso nel Mar Nero di due navi da guerra che avrebbero dovuto operare fino ai primi di maggio. La decisione era stata prontamente condannata da Mosca, con un avvertimento del vice-ministro degli Esteri, Sergei Ryabkov, a fare marcia indietro “per il bene stesso degli USA”.

Il pericolo di andare incontro a un conflitto dalle conseguenze difficili da controllare ha poi spinto la Casa Bianca a cancellare il dispiegamento delle due imbarcazioni, anche se lo scorso fine settimana è arrivata la notizia che sarà il Regno Unito a inviare nel Mar Nero due navi da guerra. Poco dopo il ripensamento di Biden, comunque, il presidente americano ha annunciato l’introduzione di nuovi sanzioni contro Mosca, collegate a varie accuse tutt’altro che dimostrate, come gli attacchi informatici che hanno colpito qualche mese fa gli Stati Uniti e i pagamenti corrisposti ai Talebani per uccidere i soldati del contingente di occupazione americani in Afghanistan. Le misure includono l’espulsione di dieci diplomatici russi negli Stati Uniti e il divieto imposto alle istituzioni finanziarie americane di acquistare titoli del debito pubblico russo.

A dare l’impressione della quasi schizofrenia che regna a Washington, il giorno prima della diffusione della notizia delle sanzioni c’era stato un colloquio telefonico tra Biden e Putin. Per la Casa Bianca, il presidente americano aveva proposto a quello russo un faccia a faccia in un paese terzo per discutere una serie di questioni di comune interesse. In molti avevano interpretato la proposta del governo USA come il tentativo di convincere la Russia a collaborare per la risoluzione di alcune crisi internazionali nelle quali Mosca potrebbe avere un ruolo decisivo, come Siria e Afghanistan.

Il Cremlino ha però comprensibilmente respinto l’offerta americana, giudicando impossibile sedersi al tavolo con un paese che parla di diplomazia mentre continua a implementare misure intimidatorie o che non intende trattare da pari a pari con i propri interlocutori. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha inquadrato con efficacia il comportamento americano, quando nel corso di una conferenza stampa ha spiegato che “gli USA non sono pronti ad accettare la realtà di un mondo multipolare nel quale l’egemonia americana non è più sostenibile”. Washington, perciò, continua a “scommettere sulle pressioni, sulle sanzioni e sull’interferenza nei nostri affari interni”.

Dal punto di vista formale, la campagna anti-russa promossa da USA e UE assume sempre più spesso caratteri paradossali e involontariamente auto-ironici. Un caso esemplare in questo senso è quello dell’iniziativa presa qualche giorno fa dal governo della Repubblica Ceca. Praga ha rispolverato improvvisamente un evento drammatico accaduto in territorio ceco nel 2014 per puntare il dito contro Mosca. Secondo il governo di questo paese, l’esplosione avvenuta in quell’anno in un deposito di armi sarebbe stata opera dei servizi segreti russi e, più precisamente, i responsabili sarebbero i due stessi agenti a cui era stato attribuito, anche in quel caso senza prove, l’avvelenamento nel 2018 in Gran Bretagna dell’ex agente dell’intelligence russa, Sergej Skripal, e di sua figlia.

La coincidenza è talmente assurda da far perdere il conto delle obiezioni che si potrebbero sollevare a questa accusa. Oltretutto, lunedì il primo ministro ceco, Andrej Babis, ha di fatto scagionato il governo russo, chiarendo che Mosca non intendeva colpire il suo paese. La strategia consiste insomma sempre nel rilanciare in continuazione la teoria anti-russa del giorno, facendo riferimento a prove mai rese pubbliche che sarebbero state raccolte dai servizi segreti, nella speranza di convincere l’opinione pubblica di quanto siano orribili, spietate e gratuite le azioni ordinate da Putin contro i propri nemici. Il governo ceco ha espulso 18 diplomatici russi e ha escluso il colosso pubblico Rosatom dalla gara d’appalto per la costruzione di una centrale nucleare da 7 miliardi di dollari.

Il caso dell’esplosione in Repubblica Ceca, mai chiarito del tutto, sembra essere stato riesumato in fretta e furia e, a questo scopo, sono state riciclate le accuse contro i due presunti avvelenatori di Skripal, le cui identità vennero “rivelate” dal sito di giornalismo investigativo Bellingcat, legato a doppio filo alla CIA e ai servizi di intelligence di altri paesi NATO. Per qualcuno, la tempestività e l’improbabilità delle accuse lanciate da Praga servono tra l’altro a far passare in secondo piano la notizia del fallito assassinio del presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, alleato talvolta scomodo di Putin. Nel rivelare il complotto sventato, Lukashenko ha accusato gli Stati Uniti di essere dietro al tentato golpe contro il suo governo. La notizia è stata confermata anche dagli ambienti dell’intelligence russa, ma in Occidente è passata quasi inosservata o, quando riportata, è stata liquidata come l’ennesima fake news uscita dalla macchina della propaganda di regimi dittatoriali.

Per chiudere il quadro, giovedì scorso Biden aveva fatto una sorta di appello pubblico alla Russia per abbassare i toni dello scontro, in modo da costruire una “relazione stabile e prevedibile”. Per il presidente americano, la strada da seguire deve passare “attraverso il dialogo e la diplomazia”. Alla luce della situazione complessiva, tuttavia, Mosca non può che interpretare il messaggio proveniente dalla Casa Bianca come un segnale di apertura ma solo alle condizioni americane e quando in ballo ci sono gli interessi degli Stati Uniti. In questa prospettiva, è evidente che il futuro non potrà che riservare un ulteriore inasprimento del conflitto in atto.

Un’ultima polemica registrata di recente a Washington contribuisce a chiarire quale sia il clima in relazione ai rapporti con la Russia e le prospettive di cambiamento dell’approccio a Mosca. A presiedere l’ufficio incaricato della gestione del file russo nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Biden aveva scelto l’accademico Matthew Rojansky, considerato di opinioni moderate per quanto riguarda i rapporti con Mosca. La designazione di Rojansky è finito però subito sotto il fuoco incrociato della stampa e dei “falchi” di Washington.

I suoi scritti del recente passato, in cui si limitava a indicare i rischi di una continua escalation dello scontro con Mosca e a invitare il governo USA a trovare una coesistenza pacifica con la Russia, sono diventati la prova che Rojansky e il centro studi che dirige non sono altro che strumenti per le interferenze del Cremlino. La sua candidatura, bollata come “controversa”, è stata alla fine abbandonata e al suo posto verrà con ogni probabilità proposto un altro “falco” pronto ad alimentare la sempre più pericolosa rivalità tra le due potenze nucleari.

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