Nei giorni scorsi, l’Australia è diventata il primo paese a cancellare ufficialmente degli accordi stipulati con la Cina nell’ambito del piano di investimenti lanciato da Pechino e noto col nome di “Belt and Road Initiative” (BRI) o “Nuova Via della Seta”. Ci sono pochi dubbi che dietro alla decisione del governo di Canberra ci sia l’amministrazione Biden. Con la regia di Washington, la classe dirigente australiana si sta infatti allineando sempre più alla campagna anti-cinese promossa da Washington, col rischio, da un lato, di mettere a repentaglio i rapporti con quello che resta il proprio principale partner commerciale e dall’altro di ritrovarsi implicata in un conflitto rovinoso combattuto in Asia sud-orientale.

 

I documenti revocati dal ministro degli Esteri, Marise Payne, riguardano due accordi non vincolanti sottoscritti con la Cina rispettivamente nel 2018 e nel 2019 dal governo dello stato australiano di Victoria. Proprio queste intese avevano spinto il parlamento federale ad approvare una legge speciale (“Australia’s Foreign Relations Act”) che consente al governo di Canberra di intervenire per ribaltare le decisioni prese a livello locale considerate contrarie agli interessi nazionali. Questo provvedimento era entrato in vigore lo scorso dicembre in parallelo all’intensificarsi in Australia dell’isteria anti-cinese.

I due accordi avevano un linguaggio estremamente generico e, nel quadro della “Nuova Via della Seta”, promettevano un impulso alla “cooperazione” tra i due paesi, così come nuove “sinergie” e un incremento degli scambi commerciali. In essi non vi erano di fatto proposte o progetti concreti. Questa natura vaga degli accordi rende ancora più significativo l’intervento del ministro Payne, perché rappresenta un attacco deliberato ai piani della BRI, elemento cruciale di tutta la politica estera di Pechino.

Senza quindi motivo concreto collegabile agli sviluppi degli accordi tra la Cina e lo stato di Victoria, la numero uno della diplomazia australiana li ha definiti “incompatibili con la nostra politica estera” e “dannosi per le nostre relazioni estere”. La Payne non ha fornito altre spiegazioni, ma quest’ultimo commento rivela chiaramente la priorità di adeguarsi alle esigenze strategiche degli Stati Uniti. Assurdamente, la ministra ha precisato che la sua decisione “non riguarda nessun paese specifico” e non ha come obiettivo quello di “danneggiare le relazioni con altri paesi”. L’iniziativa della Payne riguarda in effetti anche due accordi precedenti sottoscritti dal dipartimento dell’Educazione dello stato di Victoria con Siria (1999) e Iran (2004), ma la mossa, così come la legge su cui si basa, è rivolta quasi esclusivamente alla Cina.

Migliaia di accordi di collaborazione e memorandum d’intesa sono e saranno valutati dal ministero degli Esteri australiano, in grandissima parte relativi a Pechino. Soprattutto a livello universitario, ci sono numerosi scambi culturali e progetti congiunti sino-australiani che potrebbero finire al centro della caccia alle streghe promossa da Canberra e Washington. La stessa Marine Payne ha annunciato nei giorni scorsi una serie di altre decisioni simili nel prossimo futuro. Tra gli obiettivi del governo potrebbe esserci in particolare la concessione della gestione del porto di Darwin per 99 anni alla compagnia cinese Landbridge nel 2015, allora oggetto anche di un rimprovero pubblico del presidente americano Obama.

La reazione cinese alle ultime notizie provenienti da Canberra è stata prevedibilmente dura. Un portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha minacciato ritorsioni contro l’Australia e invitato il governo di questo paese ad “abbandonare la mentalità da guerra fredda”. Scontri e misure punitive reciproche non sono una novità. La Cina ha recentemente già sospeso le importazioni di molti prodotti dall’Australia, come carbone e vino, in risposta alla richiesta lanciata dal governo di Canberra per un’inchiesta internazionale sulle origini della pandemia di COVID-19 nella città di Wuhan.

In gioco ci sono interessi economici e commerciali enormi, essendo la Cina la destinazione principale delle esportazioni australiane. Tra la comunità degli affari australiana ci sono infatti non poche preoccupazioni per l’atteggiamento del governo federale e in molti temono che le ultime decisioni del ministro Payne possano provocare un’interruzione delle esportazioni di prodotti siderurgici, di gran lunga la voce più consistente negli scambi bilaterali.

Un eventuale boicottaggio cinese in questo ambito appare improbabile a praticamente tutti gli analisti, dal momento che per ora la Cina non dispone di fonti di approvvigionamento alternative all’Australia. Pechino ha comunque svariate altre armi a propria disposizione per colpire l’economia australiana, a cominciare dallo stop ai flussi turistici verso questo paese o a quelli dei moltissimi studenti cinesi che ogni anno si iscrivono alle università australiane generando miliardi di dollari di entrate per queste istituzioni.

Il fatto che il governo australiano abbia deciso di portare a un nuovo livello le politiche anti-cinesi, aumentando il rischio di danneggiare i propri interessi economici, conferma come sia in atto una netta accelerazione dei preparativi per intensificare le pressioni su Pechino. Queste dinamiche sono guidate da Washington e sono dirette al tentativo di contenere la minaccia cinese alla supremazia americana su scala globale, se necessario anche attraverso la forza militare.

La Casa Bianca ha nascosto a malapena la soddisfazione per la decisione del ministero degli Esteri australiano di cancellare i due accordi dello stato di Victoria nel quadro della BRI cinese. In precedenza, d’altra parte, molte altre iniziative di Canberra che avevano irritato Pechino erano state coordinate con Washington. La lista è ormai lunghissima e include, tra l’altro, l’esclusione di Huawei dalla rete 5G australiana, l’obbligo di registrazione presso il governo federale delle “lobby straniere”, il divieto ai finanziamenti esteri destinati ai partiti politici e gli attacchi contro i giornalisti dei media ufficiali cinesi operanti in Australia.

L’importanza e il significato delle misure prese dal ministro degli Esteri Payne sono confermati anche dal coinvolgimento di tutti gli esponenti più importanti del governo nella nuova offensiva anti-cinese. Il primo ministro Scott Morrison è intervenuto per affermare l’intenzione di “proteggere gli interessi nazionali” e, in un altro segnale diretto a Washington, di agire per fare in modo che l’area del Pacifico e dell’Oceano Indiano resti “libera e aperta”. Morrison ha inoltre agitato la solita retorica della difesa della “libertà”, implicitamente in opposizione all’autoritarismo cinese, mentre il ministro della Difesa, Peter Dutton, ha ostentato toni ancora più aggressivi nel chiarire che l’Australia “non si farà intimidire da nessuno” quando si tratta di garantire la propria sovranità.

La pretesa di difendere la sovranità dell’Australia è del tutto singolare se si considera che la sua classe dirigente risponde agli ordini di Washington, anche quando questi si scontrano con gli interessi economici del paese. A prevalere su tutto continuano a essere dunque i vincoli militari e, in parte, anche economici con gli USA, visti dalle élite australiane come lo strumento per promuovere le proprie mire strategiche.

Il fatto poi che ci siano divisioni interne sulla condotta della politica estera australiana dimostra ancora di più quale sia l’ascendente americano su Canberra. Infatti, fino a poco tempo fa le relazioni tra Cina e Australia sembravano dover seguire l’andamento degli scambi commerciali bilaterali. Solo nel 2017, l’allora premier Malcolm Turnbull e il suo ministro del Commercio, Steve Ciobo, avevano firmato un memorandum d’intesa con Pechino per collaborare nei progetti infrastrutturali previsti dalla BRI.

L’Australia aveva anche aderito, contro il volere degli Stati Uniti, alla Banca Asiatica degli Investimenti e delle Infrastrutture (AIIB), una sorta di alternativa alla Banca Mondiale dominata da Washington e dai suoi alleati. Lo stesso Morrison, succeduto a Turnbull e accreditato di una visione più rigida dei rapporti con la Cina, aveva anch’egli dato inizialmente il proprio esplicito sostegno ai progetti riconducibili alla “Nuova Via della Seta”, sia pure a patto che rispettassero gli “standard internazionali”.

Gli ultimi sviluppi indicano così una rapida e totale integrazione dell’Australia nei piani di Washington per affrontare la costante crescita cinese. Ciò ha implicazioni di carattere militare a dir poco preoccupanti e, infatti, il governo di Canberra sta lanciando una serie di iniziative per rafforzare le proprie capacità belliche. Se qualcuno dovesse ancora nutrire dubbi circa il livello di coinvolgimento dell’Australia in una guerra tra USA e Cina, nonché delle conseguenze per il paese dell’Oceania, per fugarli basterebbe citare le parole pronunciate nel fine settimana dal ministro della Difesa Dutton.

In occasione delle celebrazioni per il cosiddetto “ANZAC day”, che ricorda i caduti di Australia e Nuova Zelanda in tutte le guerre, Dutton ha affermato che l’ipotesi di una guerra nel breve periodo contro la Cina per il controllo di Taiwan “non deve essere trascurata”. In questo conflitto, ha lasciato intendere il ministro della Difesa, l’Australia sarebbe chiamata a prendere parte attiva e, come ha avvertito qualche giorno fa l’ex primo ministro Tony Abbott, a “fare enormi sacrifici per una giusta causa”, ovvero, in ultima analisi, per difendere gli interessi strategici dell’alleato americano.

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