La nuova aggressione israeliana contro Gaza, assieme ai drammatici eventi che l’hanno preceduta, ha riportato prepotentemente la questione palestinese al centro del dibattito sia in Medio Oriente sia a livello internazionale. Le vittime civili e la distruzione su larga scala inflitte ancora una volta dallo stato ebraico sembrano infatti segnare la fine delle illusioni, alimentate dall’amministrazione americana dell’ex presidente Trump, di una possibile riconciliazione tra Israele e i regimi arabi sulla pelle della popolazione palestinese. Questa utopia è crollata sotto le contraddizioni del defunto “accordo del secolo” promosso da Washington e, ancor più, da quelle che tormentano il primo ministro israeliano Netanyahu, come sempre senza il minimo scrupolo nel tentare di risolvere i propri guai politici, e in questo caso anche giudiziari, con il sangue dei palestinesi.

 

Uno dei segnali più evidenti di questa evoluzione sono le proteste contro i crimini di Israele che da giorni si stanno diffondendo praticamente in tutto il mondo. Nelle metropoli europee e americane sono state moltissime le manifestazioni a sostegno dei palestinesi che hanno visto sfilare migliaia o decine di migliaia di persone in ciascuna di esse. Nel fine settimana, in particolare, le dimostrazioni sono coincise con la commemorazione del giorno della “Nakba” (“Catastrofe”) che ricorda la fondazione dello stato di Israele nel 1948 e l’espulsione forzata di oltre 700 mila palestinesi dalle loro terre.

I livelli spropositati di violenza che stanno accompagnando i raid israeliani su Gaza sollevano inevitabilmente un’ondata di repulsione che si sta diffondendo in tutto il mondo. I civili continuano a essere la maggior parte dei quasi 200 morti registrati ufficialmente fino a questo punto del conflitto. Grande impressione ha fatto anche il bombardamento che ha distrutto deliberatamente l’edificio che ospitava a Gaza gli uffici della Associated Press, di Al Jazeera e di altre testate giornalistiche. Le forze armate israeliane hanno sostenuto che il palazzo era utilizzato da Hamas, ma l’accusa è stata fermamente respinta dai vertici delle agenzie di stampa che vi operavano, né Tel Aviv ha fornito una sola prova a sostegno della propria tesi.

La realtà diplomatica, strategica e sul campo di oggi in Medio Oriente è ad ogni modo estremamente diversa da quella di pochi mesi fa, quando, ad esempio, nel mese di settembre l’allora presidente Trump proclamava l’approssimarsi di una nuova era di pace nella regione. Trump si riferiva a quelle che credeva essere le implicazioni dei cosiddetti “Accordi di Abramo” che avevano portato alla formalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele da una parte e Bahrein ed Emirati Arabi dall’altra. A questi due paesi arabi sarebbero poi seguiti Marocco e Sudan, in un processo che puntava a unificare il fronte anti-iraniano e anti-sciita, guidato da Washington, sostanzialmente seppellendo la questione palestinese.

Trump intendeva in altre parole superare lo stallo dei negoziati e del principio dei due stati sganciando i paesi arabi, o una parte di essi, dalla causa palestinese attraverso incentivi economici e strategici che si sarebbero concretizzati dopo la normalizzazione delle relazioni con Israele. In quel frangente, l’oppressione dei palestinesi e le loro aspirazioni sembravano essere passate in secondo piano, con la conseguenza che il governo israeliano si è ritrovato ad avere mano libera nell’intensificare le politiche repressive e di occupazione illegale delle terre palestinesi.

I fatti delle ultime settimane hanno invece demolito il disegno di Trump e Netanyahu, peraltro accettato, sia pure provvisoriamente e con qualche distinguo, dalla nuova amministrazione americana di Joe Biden. A dare l’indicazione più chiara dell’insostenibilità di un piano basato sul tradimento della causa palestinese sono state le dichiarazioni ufficiali di condanna dell’aggressione israeliana contro Gaza di alcuni dei regimi che avevano sottoscritto gli “Accordo di Abramo”, a cominciare dagli Emirati Arabi.

Ancora più significativa è stata la denuncia dell’Arabia Saudita, con il ministero degli Esteri che ha individuato nella “occupazione israeliana” la responsabilità dell’escalation in atto, per poi invitare la comunità internazionale a imporre “lo stop immediato” della guerra, condotta “in violazione del diritto internazionale”. La normalizzazione dei rapporti con Riyadh era il premio principale che avrebbe dovuto spettare a Israele nel quadro degli accordi promossi da Trump, ma il nuovo conflitto a Gaza rende ancora più improbabile una mossa diplomatica valutata già negli scorsi mesi con estrema cautela dalla casa regnante saudita.

Che poi il passo indietro o il temporeggiare dei regimi sunniti circa Israele sia determinato più dalla reazione dei popoli arabi piuttosto che dall’appoggio convinto alla causa palestinese, sul punto di essere gettata in mare solo poche settimane fa, è fuori discussione. Ciò non toglie che i paesi del Golfo Persico si ritrovino di fronte a ostacoli difficilmente superabili nella normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico, oltretutto minacciato anche dalla revisione della politica mediorientale dell’amministrazione Biden.

È singolare che la crisi della strategia israelo-americana lanciata da Trump sia stata innescata proprio dalle iniziative di Netanyahu, da settimane impegnato a provocare i palestinesi restringendo il loro accesso alla Spianata delle Moschee durante il mese di Ramadan e favorendo il processo di espulsione di decine di famiglie in un quartiere arabo storico di Gerusalemme Est per far posto ai coloni ebrei. L’aggressione contro Gaza è stata cioè in larga misura provocata dal primo ministro israeliano allo scopo di creare una situazione di emergenza nazionale in grado di produrre pressioni insostenibili sui leader dell’opposizione che stavano finalizzando un accordo di governo tra forze politiche disparate, tra cui un partito arabo.

In definitiva, Netanyahu si è trovato a scommettere sulla tenuta degli accordi con i paesi arabi perché spinto dalla necessità di agire sul fronte interno a causa delle minacce di natura politica e giudiziaria che stavano per stringersi attorno al collo come un cappio mortale. In ultima analisi, tuttavia, le contraddizioni che minacciano di far naufragare gli “Accordi di Abramo” o, quanto meno, di ostacolarne l’allargamento a potenze come Arabia Saudita, sono da ricondurre al principio fondamentale su cui si basano, vale a dire il via libera all’intensificazione dell’oppressione palestinese.

Un altro aspetto legato a queste dinamiche e che sta emergendo relativamente a sorpresa è la solidarietà con i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania espressa dagli arabo-israeliani che vivono dentro i confini di Israele. Le città israeliane dove convivono arabi ed ebrei stanno vedendo vere e proprie sollevazioni in appoggio dei palestinesi sotto attacco, a cui le forze di sicurezza stanno rispondendo con la violenza, facendo intravedere un processo di unificazione a dir poco minaccioso per Tel Aviv.

A questo proposito, va ricordato anche che l’unità del popolo palestinese nel resistere all’occupazione e alle violenze rappresenta un serio pericolo per la stessa Autorità Palestinese e il suo presidente, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), di fatto strumento di Israele nel perpetuare le divisioni tra i palestinesi e garantire lo status quo. La mobilitazione in atto rischia così di travolgere un Abu Mazen che, con una decisione estremamente impopolare, aveva recentemente rinviato in modo unilaterale le elezioni parlamentari e presidenziali in Palestina.

Se Netanyahu non sembra ancora avere alcuna intenzione di cessare le ostilità, le potenze della regione e gli Stati Uniti sono invece alla ricerca di un accordo per una tregua tra Israele e Hamas, principalmente proprio per frenare le dinamiche descritte. Il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, è impegnato in una frenetica attività diplomatica che lo ha visto conferire, tra gli altri, con i leader di Egitto, Arabia Saudita e Qatar. Per lunedì, invece, il presidente Biden ha fatto sapere che discuterà della situazione a Gaza con il premier israeliano.

Le speranze per uno stop all’aggressione restano comunque in bilico tra i calcoli di Netanyahu, le pressioni internazionali e l’evolversi di una situazione che, sul fronte militare, minaccia un possibile coinvolgimento delle altre forze della “resistenza”, tra cui Hezbollah in Libano, con conseguenze sempre più esplosive per l’intera regione mediorientale.

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