Lo scenario della prima visita in Europa da presidente degli Stati Uniti di Joe Biden è cambiato nella giornata di lunedì dalla spiagge della Cornovaglia alla sede della NATO di Bruxelles, ma in cima alla lista delle priorità di Washington resta il nodo della competizione con la Cina. Se il metro di paragone deve essere la precedente amministrazione Trump, apparentemente l’inquilino democratico della Casa Bianca ha ottenuto un qualche successo nel tentativo di ricompattare gli alleati occidentali attorno alla linea americana. Dietro le apparenze, persistono tuttavia profonde divisioni tra le due sponde dell’Atlantico, così come all’interno della stessa Europa, sull’approccio alla “minaccia” cinese, tanto da mettere subito in forte dubbio gli impegni presi nel fine settimana dal G7, sempre meno in grado di modellare priorità e obiettivi di un pianeta indirizzato inesorabilmente verso il multipolarismo.

 

A livello esteriore, dunque, i leader di USA, Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Italia hanno ostentato una certa compattezza e, soprattutto, si sono adoperati per dare l’impressione di un ritorno ai normali rapporti tra alleati dopo la parentesi trumpiana. Nell’ultimo G7 “in presenza” nel 2018 in Canada, d’altronde, l’allora presidente americano non aveva nemmeno sottoscritto il comunicato finale del summit.

Il vertice in Cornovaglia, come ha scritto lunedì il New York Times, ha avuto ad ogni modo “connotazioni da guerra fredda” e i membri del G7 hanno alla fine dato tutti il via libera a una dichiarazione conclusiva che rappresenta un attacco frontale contro la Cina, sia pure evitando in parte la linea più radicale che avrebbe desiderato l’amministrazione Biden.

Scorrendo il documento ufficiale si ritrovano in pratica tutte le questioni attorno alle quali gli Stati Uniti stanno accelerando l’offensiva anti-cinese. In merito al COVID-19 viene rilanciata la richiesta di indagare ulteriormente sulle origini del virus e ribadita quindi la teoria complottista, smentita pressoché universalmente dalla comunità scientifica, della “fuga dal laboratorio di Wuhan”.

Stesso discorso vale per la difesa e la promozione dei diritti umani, con l’ovvio riferimento alla situazione della minoranza musulmana degli Uighuri nello Xinjiang e a quella di Hong Kong. La Cina viene anche condannata per le proprie pratiche economiche e commerciali che non rispetterebbero il “sistema di norme internazionali” e il “diritto internazionale”, ovvero che minacciano le regole dettate dagli Stati Uniti e che dovrebbero servire a garantire la supremazia di questo paese.

I governi del G7 hanno inoltre elencato apertamente le aree più calde nella contesa tra Washington e Pechino, mettendo in chiaro che il confronto in ambito militare continuerà a svolgersi anche ai confini con la Cina. Dalla difesa della “libertà di navigazione” nell’area indo-pacifica alla garanzia di stabilità nello stretto di Taiwan, fino all’appoggio allo status quo nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, gli USA e i loro alleati intendono andare al cuore degli interessi cinesi in Asia sud-orientale.

Uno degli elementi più caldi discussi al G7 è stato il piano teoricamente alternativo, promosso dagli Stati Uniti, alla Nuova Via della Seta cinese o “Belt and Road Initiative” (BRI). Anche in questo caso si tratta di un insieme di progetti infrastrutturali di sviluppo e integrazione, rivolto a quei paesi che, secondo la versione occidentale, sarebbero gravati da debiti troppo onerosi a causa appunto della partecipazione alla BRI cinese.

Nelle intenzioni americane, il nuovo piano, ribattezzato “Build Back Better World” (B3W), dovrebbe favorire progetti per svariati miliardi di dollari e rappresentare una maggiore attrattiva per i paesi da coinvolgere. In realtà, anche media e commentatori occidentali hanno più o meno esplicitamente bollato la proposta come illusoria. Il meccanismo per il reperimento dei finanziamenti destinati ad alimentare una macchina di queste proporzioni è del tutto sconosciuto. Inoltre, il B3W dovrebbe competere con il proprio corrispondente cinese che è in fase di svolgimento da ormai quasi un decennio e può contare, fino ad ora, su circa 200 accordi di cooperazione con quasi 170 paesi e organizzazioni internazionali.

La natura di questa iniziativa uscita dal G7 appare molto simile a quella della tassa minima internazionale sulle multinazionali, anticipata dal recente summit dei ministri delle Finanze delle sette potenze, andato in scena a Londra. All’imposta del 15% hanno dato il via libera i capi dei governi riuniti nel fine settimana in Cornovaglia, ma anche per questa misura restano enormi interrogativi circa l’efficacia e la possibilità che venga implementata a livello globale.

Simili proposte appaiono piuttosto come il tentativo degli Stati Uniti e dei loro partner del G7 di proiettare una ritrovata leadership mondiale nonostante questa cerchia ristretta di paesi abbia ormai perso la rilevanza che aveva in passato. In parallelo a ciò, l’amministrazione democratica punta a convincere l’opinione pubblica internazionale del “ritorno” degli USA al loro ruolo internazionale dopo il disimpegno e l’unilateralismo che avevano caratterizzato la presidenza Trump. L’aspetto più inquietante di questo “ritorno”, sempre che Washington sia in grado di far corrispondere le azioni alle parole, è che esso è destinato a inasprire le rivalità con potenze in ascesa, come Cina e Russia, e implica di conseguenza un aumentato rischio di guerra nel prossimo futuro.

Come già anticipato, le velleità di rilancio a livello globale degli Stati Uniti devono fare i conti anche con le tensioni con gli alleati, tutt’altro che sparite con l’uscita di Trump dalla Casa Bianca. Non solo i timori che l’ex presidente o un altro populista di destra torni a guidare gli USA dopo le elezioni del 2024 sono ampiamente diffusi, ma l’allargamento del divario tra Washington e Bruxelles dipende da fattori oggettivi svincolati dagli orientamenti dell’inquilino di turno della Casa Bianca.

Se i governi europei hanno dato il proprio assenso al comunicato finale anti-cinese del G7, è evidente che la loro attitudine nei confronti di Pechino è ben diversa da quella americana. Per paesi come Germania o Italia, la Cina non rappresenta una minaccia strategica, bensì un partner economico e commerciale sempre più importante, fermo restando gli elementi di competizione.

Da questa realtà derivano le resistenze emerse in Cornovaglia e ampiamente riportate dalla stampa di tutto il mondo. La Merkel, Draghi e i leader UE hanno mostrato serie riserve nel sottoscrivere le posizioni radicali avanzate da Washington. La stessa cancelliera tedesca e il presidente francese Macron hanno rilasciato dichiarazioni nelle quali si sono detti contrari a trasformare il summit in una piattaforma per denunciare il comportamento della Cina. Anche il faccia a faccia tra Draghi e Biden ha lasciato uno strascico che va ricondotto alle divergenze sulla Cina. Secondo la Casa Bianca, i due leader avrebbero discusso del file cinese, mentre la delegazione italiana ha assicurato che Biden non ha sollevato l’argomento Cina durante l’incontro.

Nel concreto, i leader del G7 non sono stati ad esempio in grado di trovare un’intesa sulla messa al bando di tutte le attività economiche e commerciali che deriverebbero dal presunto utilizzo del “lavoro forzato” nello Xinjiang. Il compromesso che ne è uscito consiste nel solo impegno a creare un “gruppo di lavoro” che dovrebbe mettere in atto iniziative volte a “sradicare ogni forma di lavoro forzato” a livello globale. La realtà che gli Stati Uniti si sono trovati di fronte in Cornovaglia è stata riassunta dal consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, il quale ha ammesso che tra i membri del G7 ci sono “vedute divergenti sull’entità della minaccia” rappresentata da Pechino, così come sulle modalità di cooperazione per affrontare la questione cinese.

Le stesse discussioni del fine settimana sono proseguite in buona parte anche durante il vertice NATO di Bruxelles di lunedì, con particolare accento sui risvolti militari della rivalità con Cina e Russia. Il summit del Patto Atlantico rappresenta in teoria un’altra occasione per rilanciare la leadership americana dopo il gelo del periodo trumpiano e i temi trattati faranno da sfondo a quello che sarà probabilmente il clou della trasferta di Biden in Europa, vale a dire il faccia a faccia con Vladimir Putin in programma mercoledì a Ginevra.

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