Al centro della conferenza di questa settimana sulla Libia c’erano sostanzialmente due argomenti: l’evacuazione di militari e mercenari stranieri e la preparazione delle elezioni presidenziali e parlamentari teoricamente in programma il 24 dicembre prossimo. Gli impegni presi dai paesi riunitisi a Berlino sembrano in apparenza prospettare qualche progresso significativo su entrambe le questioni, ma l’ottimismo ostentato e le promesse finite nel comunicato finale del summit si scontrano con la quasi totale assenza di misure concrete per far seguire i fatti alle parole.

 

Per quanto riguarda i combattenti stranieri, in una conferenza stampa alla fine dei lavori, la ministra degli Esteri del governo provvisorio libico, Najla al-Mangoush, ha addirittura auspicato un ritiro dal paese nordafricano a partire “dai prossimi giorni”. Secondo alcune stime, potrebbero essere fino a 20 mila i mercenari e i soldati stranieri impegnati in territorio libico.

Questi uomini combattono su entrambi i fronti del conflitto che infiamma da anni la Libia. Da un lato c’è il contingente di militari turchi, affiancato da mercenari reclutati in Siria e non solo, che appoggiava l’ormai defunto Governo di Accordo Nazionale, già sponsorizzato dall’ONU e di stanza a Tripoli. Dall’altra una galassia di uomini provenienti da paesi come Sudan e Ciad, nonché quelli della compagnia privata russa Wagner Group che, secondo alcuni farebbe capo al Cremlino o al regime degli Emirati Arabi. Questi ultimi sono schierati invece a difesa di un’amministrazione separata che controlla la porzione orientale del paese e che ha avuto a lungo il suo punto di riferimento nell’esercito del generale Khalifa Haftar, ex “asset” della CIA e sostenuto anche da Egitto e Francia.

Questa folla di combattenti, a cui si aggiungono le milizie armate indigene proliferate dopo il rovesciamento di Gheddafi, è il motivo immediato più serio dello stallo della situazione in Libia, anche se rappresenta in definitiva il riflesso della competizione internazionale per assicurarsi la maggiore influenza possibile su un paese le cui ricchezze e il cui posizionamento strategico fanno gola a molti.

Promesse per il ritiro delle forze straniere, così come per far rispettare un embargo internazionale sulla fornitura di armi, sono state fatte più volte nel recente passato, come ad esempio nella prima conferenza di Berlino del gennaio 2020, ma finora mai mantenute. La Turchia, inoltre, sostiene di essere in Libia legittimamente, dal momento che l’intervento degli uomini sotto il controllo di Ankara era stato chiesto dal precedente governo di Tripoli.

Per il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, questa volta ci sarebbe però un’intesa tra Russia e Turchia per un ritiro “graduale” dei combattenti, in modo anche da non stravolgere gli equilibri venutisi a creare sul campo e sfavorire una delle due parti. Secondo un funzionario del dipartimento di Stato americano citato dalla Reuters, i due paesi che al momento hanno forse i maggiori interessi in Libia si sarebbero accordati per un ritiro iniziale di 300 mercenari ciascuno. Erdogan, comunque, avrebbe spiegato al presidente francese Macron che è sua intenzione evacuare i mercenari siriani dalla Libia, se dovessero esserci le condizioni, ma che i militari regolari turchi resteranno nel paese africano.

L’altra questione cruciale è di natura politica e, in ultima analisi, ha a che fare con la possibile unificazione delle fragili istituzioni libiche, così da garantire un clima adatto al voto di dicembre che dovrebbe far nascere un governo solido capace di portare il paese fuori dalla crisi. Per fare ciò, devono essere implementate le misure legislative e costituzionali necessarie, stipulate durante i colloqui di pace patrocinati dalle Nazioni Unite lo scorso novembre. Il “Forum per il dialogo politico in Libia” era stato lanciato dopo il cessate il fuoco di ottobre che aveva fermato l’offensiva contro Tripoli di Haftar durata oltre un anno. L’assedio della capitale era stato spezzato in seguito all’intervento militare turco, grazie al quale le forze dell’ex generale di Gheddafi erano state respinte fino a Sirte.

A Berlino, il primo ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibeh, nominato a marzo assieme a un “consiglio presidenziale”, ha fatto appello direttamente al parlamento libico per approvare, tra l’altro, una legge elettorale che permetta di mandare il paese alle urne a dicembre. Questo stallo legislativo è oggetto di critiche da tempo, ma finora la situazione è cambiata di poco, anche perché il parlamento dovrebbe in definitiva approvare misure che porterebbero tra pochi mesi alla perdita del potere dei suoi membri.

Gli interessi contrapposti delle potenze che competono in Libia rendono dunque molto difficile una soluzione della crisi secondo la “roadmap” promossa dalle Nazioni Unite. È evidente che il ritiro delle forze straniere, primo passo verso la normalizzazione, non avverrà senza che ognuno dei paesi coinvolti sia stato in grado di consolidare la propria posizione o, più banalmente, di ottenere qualcosa in cambio. Per la Russia si tratta ad esempio di mantenere l’influenza su un paese dove aveva già un peso importante nell’era Gheddafi, mentre la Turchia di Erdogan si muove anch’essa nel quadro dell’aggressiva politica estera perseguita nell’area Medio Oriente/Africa del Nord in questi anni.

Ankara intende anche e soprattutto salvare il trattato che ha stipulato con il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli sulla delimitazione dei confini marittimi nel Mediterraneo orientale. Questo elemento della politica libica di Erdogan ha implicazioni strategiche importantissime, avendo a che fare con questioni energetiche e con la disputa con la Grecia attorno allo status di Cipro.

In linea generale, il controllo delle riserve petrolifere e di gas naturale della Libia accende gli appetiti di molti, anche se la torta è di dimensioni ancora più grandi. Secondo un recentissimo studio pubblicato dall’ONU, se la Libia dovesse essere stabilizzata potrebbe generare da qui al 2025 una crescita extra pari a oltre 160 miliardi di dollari.

Gli sviluppi seguiti ai colloqui di pace dello scorso autunno avevano comunque suscitato una certa fiducia nella comunità internazionale, soprattutto per via del convergere sulla soluzione politica di governi che si erano fino ad allora confrontati militarmente in Libia, come Turchia ed Egitto. Il direttore del “think tank” libico Sadeq Institute, Anas El Gomati, prima della conferenza di Berlino aveva però già messo in guardia dal pericolo della mancanza di un meccanismo vincolante per sgomberare i combattenti stranieri e sbloccare il percorso di transizione. Senza di questo, sottolineava Gomati, “non c’è assolutamente modo di evitare un altro conflitto”.

Quella che Alberto Negri su Il Manifesto ha definito “l’apoteosi dell’ipocrisia occidentale e orientale” rischia così di prolungare l’agonia della Libia, causata peraltro proprio dalla finta rivoluzione del 2011 orchestrata da Washington, Parigi e Londra. Con l’impegno per la pace e l’unità che resta per il momento solo sulla carta, la situazione sul terreno potrebbe tornare a esplodere in qualsiasi momento.

A conferma di ciò, in concomitanza con il summit di Berlino, il generale Haftar è tornato a muoversi. Nel sud del paese ha mobilitato le forze ai suoi ordini per cercare di prendere il controllo di alcuni importanti giacimenti petroliferi e di gas naturale, chiudendo poi il valico di frontiera di Asin con l’Algeria. La mossa di Haftar, ha spiegato alla testata on-line Asia Times l’esperta di Libia Alia Brahimi, “serve a ricordare che [il generale] non uscirà di scena in silenzio” e che “non si farà escludere da qualsiasi accordo” dovesse essere raggiunto per il futuro della Libia.

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