La sanguinosa guerra in corso da otto mesi nella regione etiope del Tigrè potrebbe trovare una soluzione improvvisa e decisamente inaspettata in seguito al ritiro delle forze armate del governo centrale del primo ministro, Abiy Ahmed. Quella che era iniziata come un’operazione di poche settimane si è prolungata drammaticamente davanti alla resistenza della popolazione e dei combattenti tigrini, fino a provocare una delle più gravi emergenze umanitarie in corso nel pianeta. Gli obiettivi di Addis Abeba sembrano essere per il momento falliti, ma la pace nel nord dell’Etiopia potrebbe essere ancora lontana e, anzi, i recenti sviluppi minacciano di innescare nuovi conflitti interetnici nel secondo paese più popoloso del continente africano.

 

Il premier etiope Abiy ha atteso alcuni giorni prima di parlare della situazione nel Tigrè. Lo ha fatto in un intervento pubblico nella capitale, diffuso tramite un video pubblicato mercoledì dai media etiopi. Abiy ha smentito che l’esercito sia stato sconfitto e ha descritto il disimpegno militare dal Tigrè come un imperativo, dovuto sia all’insostenibilità del clima venutosi a creare sia alle altre priorità che il paese è chiamato ad affrontare.

A inizio settimana, il governo aveva dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nella regione tigrina, ufficialmente per consentire i lavori previsti dalla stagione della semina, che si concluderanno nel mese di settembre. L’annuncio era subito apparso inverosimile e le notizie diffuse dai leader militari e politici del Tigrè, assieme a quelle riportate dai pochi giornalisti stranieri sul campo, avevano infatti delineato una realtà ben diversa. Lunedì, i guerriglieri del Fronte di Liberazione Popolare Tigrino (FLPT) sono entrati nella capitale della regione, Macallè, dove si sono subito scatenati i festeggiamenti dopo il ritiro delle forze governative. Scene simili si sono viste mercoledì nella città più settentrionale di Shire. Qui erano presenti truppe della vicina Eritrea, intervenute mesi fa per appoggiare l’offensiva di Addis Abeba.

Un portavoce del FLPT, Getachew Reda, ha definito “menzogne” le dichiarazioni di Abiy e promesso che i combattenti tigrini inseguiranno i nemici ovunque necessario per impedire nuove aggressioni, che si tratti della capitale etiope o del territorio eritreo. Reda ha poi smentito la notizia, confermata ugualmente dal primo ministro, che le forze dell’Eritrea abbiano lasciato l’Etiopia, prospettando così possibili nuovi scontri armati nei prossimi giorni.

A dare una spiegazione indiretta del successo del FLPT e, in parallelo, della clamorosa disfatta delle forze armate di Addis Abeba è stato lo stesso Abiy nel discorso citato in precedenza. Il premier etiope ha disegnato uno scenario nel quale i soldati da lui inviati si sono trovati a fare i conti con l’estrema ostilità della popolazione tigrina, tale da costringerli ad abbandonare la regione dopo mesi di guerra. Uno dei fattori decisivi nella sconfitta di Abiy sembra essere precisamente la mobilitazione del popolo di questa regione settentrionale, stimolato dalle atrocità commesse dall’esercito governativo e dalle conseguenze del conflitto: massacri di civili, stupri di massa, carestia.

Il reclutamento di uomini che hanno ingrossato le fila dei guerriglieri è proceduto in maniera imponente tra la popolazione locale, tanto che, secondo svariate testimonianze, anche molti tigrini in precedenza ostili o indifferenti al FLPT si sono messi a disposizione per combattere contro le forze del governo centrale. Disciplina, addestramento, conoscenza del territorio e necessità di difendere la propria terra e la propria stessa vita sono state motivazioni in grado di annullare il vantaggio numerico delle divisioni inviate da Addis Abeba. Alla fine, la mossa del cessate il fuoco è apparsa disperata e ha sfiorato il ridicolo, visto che al momento dell’annuncio non vi erano praticamente più soldati governativi nel Tigrè.

Per ricostruire i contorni della crisi etiope è necessario partire almeno dai primi di novembre dello scorso anno, quando le forze federali avevano iniziato la propria offensiva nella regione settentrionale del Tigrè in seguito all’accusa rivolta da Abiy al FLPT di avere bombardato una base dell’esercito. L’inizio della guerra aveva segnato l’esplosione definitiva di un conflitto etnico e politico aggravatosi nel 2018 con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed.

Fino ad allora, l’Etiopia era governata da una coalizione (“Fronte Popolare Democratico Rivoluzionario Etiope”) che includeva il FLPT. Quest’ultimo aveva anzi un’influenza decisamente superiore rispetto alla quota di popolazione etiope di etnia tigrina. Assunta la carica di primo ministro, Abiy aveva proceduto a dissolvere la coalizione per sostituirla con il nuovo “Partito della Prosperità” e mettere in atto una strategia di accentramento del potere. Il FLPT si era però rifiutato di sciogliersi in questo nuovo soggetto politico e da subito erano esplose gravi tensioni con Addis Abeba.

Abiy aveva così inaugurato una serie di epurazioni di personalità di etnia tigrina con incarichi di primo piano nelle istituzioni federali, fino a che le tensioni sono diventate incontrollabili a partire dallo scorso mese di settembre. Il Tigrè aveva deciso di organizzare le elezioni locali che il governo centrale aveva invece rinviato a causa dell’epidemia di Coronavirus. Abiy aveva allora dichiarato illegale il voto e dissolto le strutture regionali di governo dominate dal FLPT, assumendo direttamente il controllo dell’area “ribelle”.

In questo contesto, il governo centrale aveva cercato di dare l’impressione che quella inaugurata fosse un’operazione di polizia contro una “banda di criminali”. Soprattutto, l’offensiva avrebbe dovuto essere di breve durata, ma ha incontrato subito fortissime resistenze che, a sua volta, hanno provocato un inasprimento della guerra, con diffuse violazioni dei diritti umani da entrambe le parti, e l’ingresso in Etiopia di un contingente militare eritreo.

Quest’ultimo evento era stato resto possibile dagli avvenimenti degli ultimi anni, ma si è dimostrato controproducente per Addis Abeba. Tra il 1998 e il 2000, Etiopia ed Eritrea avevano combattuto una feroce guerra di confine che aveva provocato circa 100 mila morti. I due paesi erano rimasti nemici giurati fino a tre anni fa, quando fu finalizzato un accordo di pace che sarebbe valso il premio Nobel al primo ministro etiope. Nella guerra con l’Eritrea avevano svolto un ruolo decisivo le forze tigrine e, anche dopo la pace promossa da Abiy, dal punto di vista pratico le cose non sono cambiate di molto per la regione dell’Etiopia settentrionale, i cui abitanti sono della stessa etnia degli eritrei. Le relazioni con il Tigrè erano rimaste tese, così che la partecipazione dei soldati eritrei al nuovo conflitto ha senza dubbio contribuito ad alimentare la resistenza tigrina.

Sulle sorti della guerra hanno pesato tuttavia anche le pressioni internazionali, esercitate da mesi sia sul governo etiope sia su quello eritreo del presidente Isaias Afwerki. Quest’ultimo si trova d’altra parte già in una posizione precaria, visto che, nonostante la pace siglata con Addis Abeba, non si è ancora tolto di dosso l’immagine di un regime dittatoriale che viola sistematicamente i diritti umani del proprio popolo. Il ritiro delle forze eritree ha così reso impossibile all’esercito federale etiope il controllo del territorio tigrino.

Per quanto riguarda gli appelli soprattutto occidentali a fermare il conflitto, le apprensioni maggiori erano per il possibile esplodere di una bomba umanitaria e la totale destabilizzazione di un’area strategicamente importantissima del continente africano. Secondo le Nazioni Unite, la guerra ha creato 1,7 milioni di profughi e 350 mila etiopi stanno soffrendo la carestia. Per gli Stati Uniti il numero più probabile sarebbe vicino ai 900 mila, mentre rimane un problema serio l’accesso degli aiuti umanitari nelle aree teatro degli eventi di questi mesi.

La situazione nel Tigrè sarà comunque tutta da valutare, a cominciare dal comportamento delle forze governative. Il primo ministro Abiy ha affermato che l’Etiopia deve affrontare ora sfide più serie, come l’emergenza COVID o la disputa attorno a una mega-diga sul Nilo che continua a essere motivo di scontro con Egitto e Sudan. Non è però da escludere che dopo l’estate il conflitto con le forze tigrine possa riesplodere, anche perché non è chiaro in che modo verranno risolte le questioni politiche alla base della guerra. Il FLPT potrebbe ad esempio seguire la strada dell’indipendenza. Altri conflitti di natura etnica rischiano inoltre di esplodere. Durante la guerra, milizie provenienti dalla vicina regione dell’Amara hanno occupato parte del territorio del Tigrè e, dopo gli eventi dei giorni scorsi, i leader di questa etnia hanno assicurato che intendono resistere contro qualsiasi controffensiva del FLPT.

In una prospettiva più ampia, restano aperti gli interrogativi sugli obiettivi di Abiy Ahmed e su come il fallimento della campagna tigrina influirà sulle relazioni e sulla collocazione internazionale dell’Etiopia. Il paese africano è considerato un alleato degli USA, ma, almeno fino a prima dell’ascesa di Abiy, che vanta una formazione universitaria americana, aveva mantenuto una politica estera relativamente indipendente e un sistema economico improntato a un certo nazionalismo. La Cina era diventata inoltre un partner importante per lo sviluppo dell’economia e delle infrastrutture, trasformando in fretta l’Etiopia in uno snodo di rilievo per i piani di espansione di Pechino nel continente africano.

Secondo alcuni, Abyi intendeva imprimere una svolta sia sul fronte interno sia su quello internazionale. I suoi obiettivi prevedevano così un rafforzamento del potere centrale attraverso il superamento delle resistenze su base etnica, non da ultimo per aprire l’Etiopia al capitale occidentale. La strategia di Abiy sembra essere per il momento naufragata e con l’insuccesso la sua posizione rischia di diventare precaria, anche per l’atteggiamento che nei suoi confronti potrebbero avere gli Stati Uniti.

A suonare l’allarme per il premier-premio Nobel è stato infatti questa settimana il vice-segretario di Stato americano ad interim per gli Affari Africani, Robert Godec, il quale è intervenuto pubblicamente per avvertire l’Etiopia, ma anche l’Eritrea, che il suo governo “non resterà a guardare davanti agli orrori nel Tigrè”. Cioè, in termini più concreti, se l’evolversi della situazione non dovesse tenere nella giusta considerazione gli interessi strategici di Washington nella regione del Corno d’Africa.

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