Un giudice distrettuale americano ha emesso questa settimana la prima condanna a una pena detentiva a carico di uno dei partecipanti all’attacco neo-fascista contro l’edificio del Congresso di Washington del 6 gennaio scorso. L’imputato, il 38enne Paul Hodgkins, dovrebbe trascorrere solo pochi mesi dietro le sbarre e la sentenza tutt’altro che severa potrebbe essere da esempio per gli altri sostenitori di Donald Trump alla sbarra. La sorte di Hodgkins riflette l’attitudine fin troppo indulgente di gran parte della classe politica americana verso i responsabili e i “mandanti” della tentata rivolta a favore dell’ex presidente, proprio mentre sono emersi nuovi preoccupanti dettagli sulle manovre golpiste di quest’ultimo nei giorni precedenti l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca.

 

Secondo un libro in uscita, scritto dai giornalisti del Washington Post Carol Leonnig e Philip Rucker, appena prima dell’assalto a Capitol Hill, il capo di Stato Maggiore USA, generale Mike Milley, aveva avvertito i comandanti delle varie armi delle forze armate americane che gli eventi straordinari in corso rappresentavano il “ momento del Reichstag” e Trump stava seguendo il “vangelo di Hitler”. Il riferimento del più alto ufficiale degli Stati Uniti era all’incendio del parlamento tedesco nel 1933, attribuito ai comunisti ma condotto dalla Gestapo per avere il pretesto di liquidare le formalità democratiche e consentire al Partito Nazista di assumere poteri dittatoriali.

La citazione delle parole di Milley non è di natura estemporanea, ma fa parte di varie considerazioni del generale per analizzare i fatti in corso a Washington. Il numero uno del “Joint Chiefs of Staff” affermava di avere la sensazione di assistere alla “ripetizione nell’America del 21esimo secolo di alcune delle inquietanti fasi iniziali del fascismo del 20esimo secolo in Germania”. Secondo gli autori del volume, Milley intravedeva dei “paralleli tra la retorica dei brogli elettorali di Trump e l’insistenza di Hitler, durante i comizi davanti ai suoi sostenitori a Norimberga, nel definirsi insieme vittima e salvatore”. In un altro paragone con il nazismo proposto al suo staff dal generale, i membri delle varie milizie di estrema destra, che avevano guidato il blitz al Congresso, venivano accostati alle “camicie brune”, cioè le prime milizie paramilitari naziste, riconducibili per ideologia e pericolosità “agli stessi elementi contro cui abbiamo combattuto nella Seconda Guerra Mondiale”.

Il militare più alto in grado degli Stati Uniti aveva in sostanza avvertito i suoi immediati sottoposti, ovvero i comandanti dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Marines, che il presidente e “comandante in capo” stava provando a ripercorrere i passi di Adolf Hitler per ribaltare con la forza l’ordine democratico e istituire un regime dittatoriale. Delle discussioni e delle manovre in atto in quei momenti alla Casa Bianca e all’interno delle stesse forze armate non sono emerse informazioni precise, ma è probabile che Trump e i suoi sostenitori progettavano di dichiarare lo stato di emergenza, attraverso il ricorso al cosiddetto “Insurrection Act”. In questo modo, sarebbe stata fermata la certificazione dell’elezione di Biden a presidente, in programma appunto al Congresso il 6 gennaio, e Trump sarebbe potuto restare alla Casa Bianca.

Al di là delle ben note simpatie hitleriane di Trump, la tesi del tentato colpo di stato è supportata anche dai movimenti di personale, per non dire purghe, decisi dallo stesso ex presidente dopo le elezioni del novembre 2020. Assieme alla linea d’attacco basata sull’argomento della “elezione rubata”, Trump aveva installato nei ruoli chiave del Pentagono alcuni suoi fedelissimi dai provati orientamenti di estrema destra. La nomina più importante fu quella del nuovo segretario alla Difesa, l’ex colonnello delle Forze Speciali Christopher Miller. La mossa di Trump puntava a costruire una rete di uomini pronti ad assecondare un eventuale colpo di mano ed era il culmine di una strategia attentamente studiata nel corso del suo mandato per elargire favori a questi stessi ambienti militari, in primo luogo con provvedimenti di grazia concessi ad alcuni soldati condannati per crimini di guerra.

In questo contesto si inserisce una delle rivelazioni più sconcertanti tra quelle emerse dalle udienze tenute al Congresso nei mesi scorsi sui fati del 6 gennaio. Il Pentagono, guidato da Miller, aveva congelato per oltre tre ore l’invio di rinforzi della Guardia Nazionale durante l’attacco a Capitol Hill, nonostante le richieste disperate della polizia e degli stessi politici sotto assedio. Sembrano esserci pochi dubbi perciò che all’interno delle forze armate ci siano stati elementi che vedevano con favore le trame del presidente uscente. Stesso discorso vale per l’FBI, che, oltre ad avere più di un informatore dentro i gruppi di estrema destra allineati alla Casa Bianca, aveva intercettato numerosissimi scambi di messaggi decisamente espliciti tra i partecipanti alla sommossa nei giorni e nelle settimane precedenti il 6 gennaio.

Gli avvertimenti del generale Mark Milley sul “momento del Reichstag” smentiscono anche la tesi preferita dalla leadership del Partito Democratico e dal presidente Biden sugli eventi dello scorso gennaio. Anche di fronte a dati concreti riguardo i rischi corsi e la natura neo-fascista dell’operazione, a Washington si continua infatti per lo più a minimizzare l’accaduto, come se l’irruzione al Congresso di una folla armata e intenta a dare la caccia a deputati e senatori fosse una sorta di visita turistica o, tutt’al più, una manifestazione pacifica di protesta.

Una sostanziale sottovalutazione del pericolo ha caratterizzato anche il processo di Paul Hodgkins, condannato lunedì ad appena otto mesi di carcere per avere partecipato all’assalto del 6 gennaio. Eppure, il giudice che ha presieduto al caso si era speso per sottolineare la gravità delle accuse, spiegando come Hodgkins e gli altri partecipanti alla rivolta abbiano causato un “danno [alla democrazia USA] che durerà per decenni”, così che risulterà “difficile convincere i nostri figli e i nostri nipoti che la democrazia rimane immutabilmente a fondamento della nazione”.

Durante il procedimento, l’accusa aveva a sua volta dimostrato come Hodgkins fosse arrivato a Washington dalla Florida con intenzioni non esattamente pacifiche, visto che aveva portato con sé equipaggiamenti utili in caso di scontri con le forze dell’ordine, come corde, guanti e maschere protettive. Per il pubblico ministero Mona Sedky, in definitiva, l’imputato ha preso parte “all’atto di terrorismo domestico” che si stava svolgendo il 6 gennaio scorso. Nonostante la gravità della sua posizione, la stessa accusa aveva chiesto una condanna a 18 mesi di carcere. La pena massima prevista dalla legge americana può arrivare fino a 10 anni, ma alcune accuse a carico di Hodgkins erano state stralciate dopo che aveva accettato di dichiararsi colpevole di un unico capo d’accusa, quello di avere ostacolato una procedimento ufficiale, cioè la certificazione della vittoria nelle elezioni presidenziali di Joe Biden.

Alcuni commentatori hanno comunque denunciato la lievità della pena e fatto notare come due cittadini afro-americani abbiano ricevuto recentemente un trattamento ben diverso dalla giustizia USA. Entrambi sono coinvolti in procedimenti nello stato del Texas per avere votato “illegalmente” perché in libertà vigilata. Il primo è in stato di arresto e rischia fino a 40 anni di carcere, mentre la seconda ha già ricevuto una condanna a cinque anni.

Il caso di Paul Hodgkins potrebbe dunque servire da modello per quelli degli altri 200 partecipanti all’attacco del 6 gennaio finora incriminati. Se le pene che verranno stabilite risulteranno con ogni probabilità ugualmente lievi, ancora meno pesanti o, per meglio dire, del tutto inesistenti saranno le conseguenze per i complici di fatto di Donald Trump e lo stesso ex presidente, a cominciare dai suoi più stretti collaboratori e dai membri del Congresso che avevano appoggiato la cospirazione culminata nell’assalto a Capitol Hill.

Per loro non solo non c’è stata nessuna indagine né incriminazione, ma nemmeno una chiamata a testimoniare davanti al Congresso. Mentre Trump continua a esercitare la propria influenza su un Partito Repubblicano spostato sempre più a destra, la strategia dei democratici e della Casa Bianca resta infatti quella dell’appello all’unità, al superamento del passato e alla ricerca di uno spirito di collaborazione con quegli stessi elementi che, poco più di sei mesi fa, hanno pianificato e appoggiato un aperto tentativo di golpe con la mobilitazione di milizie neo-fasciste.

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