La strage di civili compiuta da un drone americano in risposta all’attentato del 26 agosto all’aeroporto di Kabul ha suggellato in modo drammaticamente appropriato la fine dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan. In perfetta coincidenza con l’impegno a evacuare tutti i soldati entro il 31 agosto, l’ultimo aereo militare degli Stati Uniti è decollato un minuto prima della mezzanotte di lunedì, lasciando indietro un paese con un futuro incerto e sul quale potrebbero continuare minacciosamente a pesare le manovre di Washington.

 

In un clima tesissimo e di estrema confusione, alimentata anche dalla stampa ufficiale in Occidente, il Pentagono ha fatto sapere di avere evacuato circa 122 mila persone, inclusa l’intera rappresentanza diplomatica americana, trasferita a Doha, in Qatar. In Afghanistan resterebbero poco più di un centinaio di cittadini americani e decine di migliaia di afghani con i documenti in regola per lasciare il paese tornato nelle mani dei Talebani.

L’entità del fallimento dell’avventura inaugurata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001 si può misurare osservando molti degli eventi di queste ultime settimane, assieme alla situazione in cui versa l’Afghanistan dopo vent’anni di “guerra giusta”. Proprio lunedì, ad esempio, gli USA e i loro più stretti alleati europei al Consiglio di Sicurezza ONU hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di incidere sugli eventi del paese da cui sono stati cacciati.

Soprattutto la Francia aveva proposto la creazione di un’area “sicura” nella capitale afghana per permettere di processare le richieste di espatrio di quanti hanno collaborato con le forze di occupazione e che temono ora le ritorsioni talebane. Non avendo ormai strumenti per implementare sul campo una misura di questo genere, che sarebbe stata ovviamente respinta dai Talebani, il Consiglio ha alla fine approvato una risoluzione simbolica e inefficace. Con l’astensione di Cina e Russia è stato votato un semplice appello agli “studenti del Corano” a garantire l’evacuazione di quanti intendono abbandonare l’Afghanistan. Nessun provvedimento è comunque previsto in caso di chiusura dei confini da parte dei Talebani.

La realtà con cui Washington deve fare i conti in Afghanistan ha avuto un’evoluzione rapida e inaspettata che testimonia a sua volta le basi fragilissime su cui si è basata l’occupazione. Solo ai primi di agosto, il segretario di Stato Anthony Blinken aveva assicurato che gli USA avrebbero continuato a essere coinvolti in Afghanistan per molto tempo dopo il ritiro del contingente militare. Lo scioglimento come neve al sole delle forze armate indigene, finanziate con 80 miliardi di dollari dalla potenza occupante, ha invece innescato un processo di disintegrazione del governo-fantoccio di Kabul che ha consentito ai Talebani di entrare nella capitale il giorno di Ferragosto.

L’umiliazione del ritiro americano ha così scatenato una valanga di critiche nei confronti del presidente Biden per la gestione del disimpegno dall’Afghanistan. Oltre al fatto che i termini e i tempi del ritiro erano stati in larga misura negoziati dall’amministrazione Trump, gli eventi che hanno accompagnato l’evacuazione dei militari USA sono stati determinati dalla natura stessa dell’occupazione ventennale del paese. Le premesse ingannevoli della guerra propagandata come necessaria per colpire i responsabili degli attacchi dell’11 settembre hanno creato un sistema artificiale e ultra-corrotto tenuto in piedi da finanziamenti esterni, costati solo agli Stati Uniti più di duemila miliardi di dollari.

Questa realtà aiuta a comprendere come i Talebani, il cui governo era evaporato poco dopo l’invasione USA dell’ottobre 2001, sono stati in grado di riorganizzarsi e avanzare a poco a poco nel paese fino a controllare la maggioranza del territorio ben prima dell’inizio dell’evacuazione dei militari NATO. Un ritorno al potere quello dei Talebani che è stato senza dubbio favorito dall’impopolarità dell’occupazione, per lo meno al di fuori di una ristretta cerchia urbana che ne ha invece beneficiato spesso a dismisura, impressa nella memoria della popolazione afghana per i bombardamenti indiscriminati con i droni, le stragi di civili, i raid notturni delle forze speciali, le detenzioni arbitrarie e le torture.

Con questi precedenti, come spiegato all’inizio, il tragico incontro dell’Afghanistan con l’imperialismo americano non poteva che finire, almeno per questa fase, con l’ennesimo massacro di civili. Domenica scorsa, l’attacco con i droni autorizzato dalla Casa Bianca, ufficialmente per uccidere i responsabili dell’attentato all’aeroporto di Kabul, ha fatto una decina di vittime, nove delle quali della stessa famiglia, inclusi sette bambini tra i due e i dodici anni. L’operazione è solo l’ultimo dei crimini di guerra americani in Afghanistan che non saranno mai perseguiti penalmente.

In una situazione estremamente fluida e incerta, con l’uscita di scena delle forze di occupazione NATO al centro dell’attenzione internazionale ci sarà la finalizzazione delle trattative per la creazione del prossimo governo afghano. Le pressioni internazionali si sono intensificate sui Talebani per convincerli a garantire un sistema inclusivo che coinvolga le varie etnie afghane, eviti gli eccessi fondamentalisti della loro precedente esperienza di governo e contribuisca a stabilizzare un paese in profondissima crisi.

Se i Talebani manterranno le promesse all’insegna della moderazione fatte nelle scorse settimane lo si vedrà molto presto. Al di là del sistema che verrà instaurato sul fronte domestico, la necessità di far fronte ai problemi enormi dell’Afghanistan, in primo luogo di carattere economico, lascia sperare che i Talebani adotteranno per lo più un atteggiamento pragmatico nei rapporti con i paesi vicini e non solo.

Russia, Cina e Iran offrono in particolare occasioni di crescita e sviluppo, ma il fatto che tutti questi paesi siano nel mirino di Washington comporta più di un fattore di incertezza per il prossimo futuro. Le intenzioni americane restano infatti tutt’altro che limpide e le implicazioni strategiche del quadro afghano, così come le pressioni della fazione della classe dirigente USA più frustrata per l’umiliazione appena incassata, lasciano aperte ipotesi inquietanti.

Uno scenario di questo genere può essere collegato all’attentato di settimana scorsa all’aeroporto di Kabul, attribuito all’oscura sigla ISIS-K, ovvero lo Stato Islamico del Khorasan, ultima incarnazione del terrorismo jihadista singolarmente funzionale agli obiettivi strategici degli Stati Uniti. La presenza in Afghanistan di questo gruppo armato, per alcuni favorita direttamente dagli USA, è già di per sé una ragione che può giustificare ulteriori bombardamenti americani, secondo un copione collaudato che garantisce l’influenza di Washington sulle vicende di un determinato paese.

Altro fronte caldo, assieme a quello della possibile “resistenza” riconducibile alla cosiddetta “Alleanza del Nord”, è rappresentato infine dalle creazioni americane più letali in Afghanistan, ovvero le forze speciali più o meno clandestine nate grazie soprattutto alla CIA. Questi organismi e i suoi membri, secondo alcune fonti, sono la preoccupazione principale dei Talebani che, infatti, starebbero cercando di stanarli nel paese.

I timori degli “Studenti del Corano” sono del tutto giustificati, dal momento che sia la “resistenza” anti-talebana sia le altre formazioni dall’identità non del tutto chiara sono potenzialmente strumenti di Washington e minacciano di destabilizzare da subito l’Afghanistan post-occupazione, col rischio, nella peggiore delle ipotesi, di fare esplodere una nuova rovinosa guerra civile

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