È possibile che gli Stati Uniti siano andati vicini a lanciare un attacco militare contro la Cina nelle ultime settimane trascorse da Donald Trump alla Casa Bianca? L’ipotesi potrebbe sembrare inverosimile, ma le anticipazioni di un nuovo libro in uscita in America hanno rivelato che almeno due soggetti, con una prospettiva a dir poco privilegiata sugli eventi di Washington, ritenevano questa eventualità tutt’altro che fantasiosa nei frenetici giorni delle elezioni presidenziali e della transizione alla guida del paese.

Nel volume “Peril” (“Pericolo”), i giornalisti del Washington Post Bob Woodward, noto per l’indagine sullo scandalo del Watergate negli anni Settanta del secolo scorso, e Robert Costa hanno raccontato come i timori per un’azione disperata di Trump, con l’obiettivo di rimanere alla Casa Bianca, fossero nutriti seriamente sia dal governo di Pechino sia dal capo dello Stato Maggiore militare americano, generale Mark Milley.

 

L’intenzione di Trump di non volere ammettere la sconfitta incassata da Biden e dai democratici aveva provocato profonde divisioni all’interno dell’apparato di potere degli Stati Uniti. Numerosi segretari e funzionari del governo repubblicano uscente avevano abbandonato l’amministrazione in polemica con la deriva semi-golpista che si stava evidenziando sotto la guida del presidente. Altri invece erano stati liquidati da Trump proprio per la loro indisponibilità ad assecondare le manovre autoritarie allo studio.

In quel periodo erano iniziate a circolare voci di una possibile iniziativa clamorosa da parte di Trump, inclusa un’azione militare contro uno dei nemici dell’America, come l’Iran o la Cina, in modo da creare una situazione di emergenza nazionale e giustificare la sospensione del normale processo costituzionale che avrebbe dovuto portare Joe Biden alla Casa Bianca. A questa conclusione era giunto appunto il governo cinese già nel mese di ottobre del 2020, cioè poco prima delle elezioni presidenziali.

L’intelligence americana aveva riferito ai vertici militari le preoccupazioni di Pechino e il 30 ottobre il generale Milley si era sentito in dovere di rassicurare la sua controparte cinese. Il capo di Stato Maggiore USA aveva così telefonato al generale Li Zuocheng, comandante dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese, per spiegare che non vi erano piani per colpire il suo paese. Il governo americano, spiegava Milley, era “stabile” e tutto sarebbero andato per il verso giusto.

Il voto di novembre non avrebbe però stabilizzato il quadro politico e la determinazione, mostrata subito d Trump, nel respingere il risultato delle urne aveva aumentato ancora di più le paure della Cina e infiammato il conflitto dentro le istituzioni americane. Nel libro di Woodward e Costa si legge un avvertimento rivolto al generale Milley dall’allora direttrice della CIA, Gina Haspel, secondo la quale gli USA stavano andando verso “un colpo di stato di estrema destra”.

Visto l’evolversi della situazione, spiegano ancora i due reporter del Washington Post, Milley “non aveva l’assoluta certezza che i militari potevano controllare o fidarsi di Trump” e il generale riteneva perciò suo compito e degli altri più alti ufficiali “considerare l’impensabile e prendere tutte le precauzioni necessarie”. Il consolidarsi di un movimento estremista alimentato dagli ambienti trumpiani e l’insistenza sulla tesi del “voto rubato” avrebbero condotto al clamoroso attacco contro l’edificio del Congresso il 6 gennaio 2021, giorno previsto per la ratifica dei risultati delle elezioni.

Due giorni dopo ci sarebbe stato un secondo colloquio telefonico segreto tra Milley e il generale cinese Li Zuocheng. L’ufficiale americano ammetteva che la situazione “poteva apparire instabile”, ma a suo dire questa era “la natura della democrazia”. Milley assicurava che gli Stati Uniti erano “stabili al 100%” e che tutto “stava andando bene”. Anche in questo caso c’era stata la garanzia che non ci sarebbero state iniziative militari contro la Cina e, anzi, Milley si era addirittura impegnato ad avvertire anticipatamente il comandante delle forze armate cinesi se non gli fosse stato possibile impedire a Trump di ordinare un attacco.

Milley stesso non doveva essere tuttavia troppo convinto delle rassicurazioni espresse al collega cinese. Infatti, sempre l’8 gennaio aveva indetto una riunione segreta straordinaria con i comandanti delle varie armi delle forze armate statunitensi nel suo ufficio al Pentagono. Pur non facendo formalmente parte della catena di comando, il capo di Stato Maggiore intendeva “ricordare” a tutti i presenti che le procedure per il lancio di un ordigno nucleare prevedevano il suo coinvolgimento. “Qualsiasi cosa vi venga ordinata”, aveva detto Milley agli ufficiali riuniti al Pentagono, “attenetevi alla procedura… e io faccio parte di questa procedura”.

Al termine del suo intervento, Milley aveva guardato negli occhi uno per uno i presenti, chiedendo a tutti di confermare di avere compreso quanto gli era stato comunicato, ovvero in sostanza, che non avrebbero dato seguito a eventuali ordini di Trump senza metterne al corrente il capo di Stato Maggiore. Tutti diedero risposta positiva e, raccontano Woodward e Costa, Milley considerava il loro assenso “come un giuramento”.

Questa riunione si era tenuta dopo che Milley aveva discusso della situazione alla Casa Bianca con la “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi. Il dialogo riportato dal libro in uscita settimana prossima dà l’idea del clima di crisi senza precedenti in tempi moderni che stavano attraversando gli Stati Uniti. Milley informava la leader del Partito Democratico del rischio che il presidente uscente potesse ricorrere alla forza militare per fermare il passaggio di consegne sancito dal voto. I due concordavano nel giudicare “folle” il comportamento di Trump e anche la Pelosi cercava rassicurazioni circa la possibilità del generale di evitare una rovinosa escalation con la Cina o con altri paesi rivali.

ll libro di Woodward e Costa, parte del quale è stato pubblicato in anteprima questa settimana da alcuni media americani, offre tra l’altro alcuni particolari sullo scontro esploso attorno alla transizione politica seguita al voto che non erano finora mai emersi. Uno di questi conferma come dietro all’ex presidente repubblicano ci sia stato e ci sia tuttora un pericoloso movimento di natura neo-fascista che ha tra i suoi punti di riferimento l’ex consigliere dello stesso Trump, Stephen Bannon.

Quest’ultimo, da tempo ufficialmente allontanato dalla Casa Bianca, aveva svolto un ruolo di primo piano nel convincere Trump a resistere per non lasciare la presidenza ai democratici. Bannon, si legge nel libro, aveva invitato il presidente sconfitto a tornare a Washington per fare un appello ai suoi sostenitori, così da “seppellire Biden il 6 gennaio”. Com’è noto, l’assalto al Campidoglio in questa data era stato anticipato da un discorso infuocato di Trump di fronte alla Casa Bianca.

L’altra circostanza raccontata dal volume “Peril” riguarda invece l’allora vice-presidente Mike Pence e contribuisce anch’essa a delineare un panorama nel quale la cerchia dei complici più o meno convinti di Trump era più ampia di quanto sia stato fatto credere in tempi recenti. Pence è stato dipinto dopo il 6 gennaio come una sorta di eroe, ben deciso a impedire il ribaltamento dell’ordine costituzionale che il suo superiore stava pianificando. In realtà, il vice-presidente era lacerato dai dubbi e sembra non avesse inizialmente escluso la possibilità di assecondare i progetti eversivi di Trump.

Per sondare il terreno, ai primi di gennaio Pence aveva contattato privatamente Dan Quayle, già vice-presidente degli Stati Uniti durante la presidenza di George H. W. Bush, anch’egli chiamato nel 1992 a certificare il risultato di un’elezione che lo aveva visto sconfitto. Pence chiedeva insomma a Quayle se a suo parere esisteva un qualche appiglio legale alla tesi di Trump, secondo la quale il vice-presidente aveva la facoltà di respingere i risultati del voto sulla base dell’esistenza di fantomatici brogli elettorali. I dubbi di Pence, che avrebbe alla fine respinto la richiesta di Trump, furono fugati fermamente da Quayle, per il quale il vice-presidente “non ha alcuna flessibilità” in questo ambito.

Queste ultime rivelazioni sulle fasi finali dell’amministrazione Trump sollecitano almeno due considerazioni. La prima è che smentiscono ancora una volta coloro che in questi mesi hanno cercato in tutti i modi di minimizzare gli eventi del 6 gennaio scorso e, più in generale, la pericolosità delle manovre golpiste dell’ex presidente repubblicano e dei suoi sostenitori.

In secondo luogo, la gravità dei fatti descritti scredita ulteriormente il Partito Democratico americano che, pur essendo a conoscenza di quanto stava accadendo sotto la regia della Casa Bianca, ha fatto poco o nulla per informare il pubblico e promuovere una mobilitazione per salvare ciò che resta di democratico negli USA. Al contrario, come dimostra anche il già ricordato colloquio tra Nancy Pelosi e Mark Milley, i democratici avevano delegato sostanzialmente ai militari l’opposizione contro Trump e l’estrema destra.

Questo atteggiamento della classe politica americana formalmente contraria al trumpismo, che include l’ala “moderata” del Partito Repubblicano, non fa che creare le condizioni per un rafforzamento delle tendenze neo-fasciste, consentendo all’ex presidente, come già sta accadendo, di consolidare la propria influenza sugli ambienti repubblicani e di riproporsi, forse anche in prima persona, nella corsa alle elezioni presidenziali del 2024.

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