Con le elezioni federali del fine settimana si è ufficialmente chiusa in Germania la lunghissima era della cancelliera Merkel. Ciò che seguirà resta per il momento tutt’altro che chiaro, ma il dato che è emerso in base ai risultati non ancora definitivi è la tendenza alla disintegrazione anche a Berlino del sistema politico tradizionale, anche se, almeno per il momento, decisamente meno marcata rispetto ad altri paesi occidentali. Le opzioni per la prossima coalizione di governo restano aperte, con i Socialdemocratici (SPD) in vantaggio sui Cristiano Democratici e sui Cristiano Sociali (CDU/CSU) che hanno fatto segnare la peggiore prestazione dal dopoguerra a oggi.

 

I mesi precedenti il voto avevano registrato un’estrema volatilità, con la SPD che ancora prima dell’estate sembrava destinata a subire un’altra umiliazione dagli elettori. In tre mesi circa c’è stato invece un recupero di dieci punti percentuali che ha permesso al principale partito di centro-sinistra tedesco di salire al 25,7%, che, pur essendo tutt’altro che entusiasmante in prospettiva storica, è di oltre cinque punti percentuali superiore al risultato del 2017.

Il partito della Merkel e il gemello bavarese (CSU) sono invece scesi a poco più del 24%, pagando, tra l’altro, una leadership poco convincente come quella del premier del “Land” Renania Settentironale-Vestfalia, Armin Laschet, impegnato a tracciare una linea politica simile a quella della cancelliera ma totalmente privo di carisma e protagonista di ripetute gaffes durante la campagna elettorale.

Sull’esito del voto tedesco hanno agito svariati fattori, non da ultimo un certo logorio della soluzione della “Grosse Koalition” degli ultimi otto anni a guida cristiano-democratica. Una molto limitata inclinazione progressista ostentata dal candidato socialdemocratico alla cancelleria, il ministro delle Finanze Olaf Scholz, ha inoltre contribuito a dare una qualche spinta alla SPD. Un risultato, quello di quest’ultimo partito, che è appunto anche il prodotto di una ricerca di buona parte dell’elettorato di politiche di sinistra, confermato dalla migliore performance di sempre dei Verdi (14,8%).

Allo stesso tempo, però, il Partito della Sinistra (“Die Linke”) rischia di non raggiungere nemmeno la soglia di sbarramento del 5%. Il flop è da ricondurre in parte alla campagna di discredito a cui il partito è stato sottoposto in campagna elettorale, visto che rimaneva una lontana possibilità di un suo ingresso al governo con SPD e Verdi. Più ancora, “Die Linke” sembra avere scontato la partecipazione ad alcuni governi regionali dove negli ultimi anni sono state implementate politiche apertamente neo-liberiste. Da segnalare c’è anche l’arretramento dell’estrema destra dell’Alternativa per la Germania (AfD), che, scesa a poco più del 10%, resta comunque una forza pericolosa con cui fare i conti.

Oltre che dalle questioni di leadership o di programmi economici, i risultati del voto e i nuovi equilibri che ne usciranno dipendono in buona parte dal riassestamento delle posizioni della classe dirigente e del business tedesco in un frangente caratterizzato da un lato dall’uscita di scena della Merkel e dall’altro dalle scosse in atto a livello internazionale che richiedono un profondo ripensamento delle strategie e della posizione della Germania a livello globale.

Il raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti, iniziato con la presidenza Trump ma in realtà legato a fattori oggettivi rimasti in buona parte dopo l’arrivo di Biden alla Casa Bianca, il relativo disimpegno di Washington in alcune aree del pianeta, l’intensificarsi del conflitto sino-americano e il consolidamento delle dinamiche multipolari nell’area euroasiatica hanno generato un dibattito e profonde divisioni negli ambienti di potere tedeschi che si rifletteranno sulle scelte del prossimo governo federale.

Dietro all’apparente unità della classe politica “mainstream” nel denunciare le presunte pratiche anti-democratiche cinesi o l’aggressività russa ci sono spaccature evidenti attorno alle decisioni che si prospettano nell’era post-Merkel, fondamentalmente per tracciare un futuro sempre ancorato all’opzione atlantica oppure aperto all’integrazione euroasiatica. Storicamente, i governi a guida socialdemocratica hanno portato la Germania a guardare maggiormente verso est, ma le inclinazioni di un ipotetico cancelliere Scholz e l’influenza che avranno i potenziali partner di coalizione, qualunque sia la composizione del prossimo esecutivo, saranno tutte da verificare.

Alla luce dei numeri usciti dalle urne, sono in teoria possibili vari scenari che permettono di mettere assieme una maggioranza di governo a Berlino. La stampa tedesca e non solo sostiene che dovrà esserci inevitabilmente una coalizione a tre, del tutto inedita per la Germania post-bellica. La soluzione “Giamaica”, in riferimento ai colori della bandiera di questo paese che corrispondono a quelli di CDU/CSU, Verdi e Liberal Democratici (FDP), assieme a quella “semaforo”, dai colori di SPD, Verdi e FDP, sembrano essere le più gettonate.

Una nuova “Grande Coalizione” tra CDU/CSU e SPD appare invece improbabile, anche se avrebbe probabilmente numeri sufficienti al “Bundestag”. Questa possibilità viene considerata per ora da pochissimi commentatori, principalmente perché risulterebbe impopolare essendo un sostanziale tradimento della volontà degli elettori. Va ricordato in ogni caso che anche dopo le elezioni del 2017 era stato subito escluso un nuovo patto di governo tra i due principali partiti, per poi essere mandato in porto con il complicarsi dei negoziati per un gabinetto dalle connotazioni più “politiche”.

Una volta ufficializzati i risultati del voto, cioè dopo il conteggio anche del 40% delle schede inviate per posta, si conosceranno gli equilibri definitivi tra i vari partiti che influenzeranno di conseguenza i negoziati per la creazione del prossimo governo federale. Se SPD e CDU/CSU finiranno per essere divisi da pochi voti e seggi, è in teoria possibile che entrambi i rispettivi leader possano aspirare alla carica di cancelliere. Le trattative dureranno probabilmente mesi e sia Scholz sia Laschet hanno già lanciato la loro candidatura alla guida della Germania.

Se non dovessero arrivare sorprese dai risultati definitivi, è ragionevole credere che le maggiori chances di successo siano per un governo tra SPD, Verdi e FDP. A parte alcune differenze nei rispettivi programmi, questa opzione è favorita da alcuni fattori. In primo luogo, la presenza simultanea di SPD e FDP serve da un lato a contenere le tensioni sociali sempre più evidenti e dall’altro a garantire che non ci siano spinte, ancorché modeste, verso sinistra. La difficile situazione del centro-destra, inoltre, potrebbe convincere i vertici della CDU a preferire un periodo all’opposizione, se non altro per promuovere una riflessione interna sul futuro del partito e probabilmente per liquidare una leadership che già prima del voto aveva raccolto pochissimi consensi convinti.

Qualunque sia alla fine il profilo del nuovo governo di Berlino, in cima all’agenda ci sarà senza dubbio la promozione degli interessi da grande potenza della Germania, sia attraverso un impulso alla definizione in maniera più indipendente delle strategie di politica estera, possibilmente in ambito europeo, sia con una spinta drastica alla militarizzazione. Di questi obiettivi ne ha parlato più o meno apertamente anche il presidente tedesco, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, durante il suo recente intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, così come su di essi hanno finito per convergere tutti i leader dei principali partiti durante la campagna elettorale.

Le mire del capitalismo tedesco nel nuovo clima globale ultra-competitivo saranno in definitiva e come sempre il punto di riferimento del primo governo post-Merkel, anche se occultate dietro alla retorica delle “responsabilità internazionali” e della “promozione dei valori democratici”. Ciò determinerà il dirottamento di ingenti risorse verso questi obiettivi, lasciando poco spazio a riforme o a iniziative anche più modeste che implichino un qualche aumento della spesa sociale.

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