Se le elezioni locali di martedì negli Stati Uniti dovevano testare la tenuta del Partito Democratico a un anno dal voto di metà mandato, i risultati nelle due principali competizioni in programma consegnano all’amministrazione Biden e ai leader di maggioranza al Congresso pochissime ragioni di ottimismo. Soprattutto l’esito della sfida per la carica di governatore dello stato della Virginia deve suonare come un campanello d’allarme per i democratici, la cui ambiziosa agenda di riforma dopo il successo nelle presidenziali del 2020 ha fatto segnare finora un imbarazzante arretramento dopo l’altro.

 

Il Partito Repubblicano è tornato a vincere dopo dodici anni l’elezione per la carica più importante dello stato adiacente alla capitale americana, diventato da qualche tempo un tassello cruciale nella strategia democratica per la conquista della Casa Bianca. Secondo la stampa USA, la “coalizione” di elettori che aveva permesso a Biden di vincere agevolmente nello stato dodici mesi fa ha dato segni di sfaldamento. Più precisamente, le contee settentrionali più benestanti e urbanizzate dello stato, diventate una sorta di roccaforte democratica, hanno visto uno spostamento verso il Partito Repubblicano che, a sua volta, ha prevalso come di consueto nelle aree rurali.

Il candidato dei democratici, l’ex governatore Terry McAuliffe, aveva fino all’estate un vantaggio di svariati punti percentuali, almeno secondo i sondaggi, ma nelle settimane successive il margine dal repubblicano Glenn Youngkin, ricchissimo ex top manager del colosso finanziario Carlyle Group, ha cominciato a restringersi, mandando nel panico i vertici del partito a Washington. In soccorso dell’ex responsabile della raccolta fondi per i Clinton erano così arrivati alcuni pezzi grossi democratici, inclusi Obama, la vice-presidente Kamala Harris e lo stesso Biden. Le loro apparizioni nei comizi di McAuliffe alla fine non hanno fatto però che sottolineare lo scarso entusiasmo generato dalla sua campagna e, visto il risultato del voto, la crescente insofferenza per l’amministrazione Biden e il Partito Democratico a livello nazionale.

Sui democratici in Virginia si è scatenata una tempesta provocata in sostanza da due elementi. Il primo è appunto la frustrazione per l’incapacità dell’amministrazione Biden di mandare in porto un solo provvedimento di rilievo tra quelli propagandati in campagna elettorale. Le varie proposte di legge sull’estensione del welfare, sull’ammodernamento delle infrastrutture e sul contenimento del cambiamento climatico restano oggetto di contese interne al partito e, se mai una di esse dovesse trasformarsi in legge, risulterà decisamente ridimensionata rispetto alla versione iniziale.

L’altro fattore che ha pesato sulla sconfitta del Partito Democratico è l’esaurimento della pazienza di molti per le misure restrittive anti-COVID, espressione in larga misura dell’irritazione diffusa per l’incapacità del governo di combattere in modo efficace e una volta per tutte la pandemia. Il candidato repubblicano Youngkin ha evidentemente cavalcato questi sentimenti, mentre il resto lo ha fatto il ricordo non esattamente entusiasmante del precedente mandato alla guida della Virginia di McAuliffe, già governatore tra il 2013 e il 2017.

Il Partito Democratico aveva peraltro messo del proprio in precedenza per consegnare la vittoria ai repubblicani. Nel 2019, il governatore uscente Ralph Northam era stato al centro di un duro attacco orchestrato da una parte del suo partito per un episodio del passato in cui si era presumibilmente travestito da afro-americano. Northam ne era uscito fortemente indebolito, così come inevitabilmente lo stesso Partito Democratico, nonostante fosse riuscito a restare al suo posto, e l’episodio era servito a ribadire la fissazione dei leader democratici per le questioni di razza e di genere.

Su questi temi, McAuliffe e il suo entourage hanno insistito anche nella campagna elettorale appena conclusa e, puntualmente, si è trattato di una scommessa perdente. In presenza di problemi molto più pressanti, la maggioranza degli elettori della Virginia non ha nemmeno ritenuto di dover penalizzare Youngkin per gli appelli quasi apertamente razzisti della sua campagna. In particolare, il governatore repubblicano in pectore aveva sollevato un polverone, quanto meno sulla stampa ufficiale, per un attacco contro la scrittrice afro-americana Toni Morrison e il suo romanzo premio Pulitzer “Beloved”.

Questa vicenda solleva una serie di considerazioni valide probabilmente anche a livello nazionale, sia in previsione delle elezioni per il rinnovo di buona parte del Congresso di qui a dodici mesi sia delle presidenziali del 2024. La strategia democratica e l’inerzia dell’amministrazione Biden sui temi economici e delle diseguaglianze sociali rischiano cioè di favorire la candidatura di Trump e il rafforzamento del suo ascendente sul Partito Repubblicano. McAuliffe aveva cercato di denunciare l’identità di vedute tra Youngkin e Trump, anche se l’ex presidente non era stato particolarmente coinvolto nella campagna elettorale del candidato repubblicano. Ma, chiaramente, il tentativo di agitare lo spettro di Trump non ha dato frutti e, anzi, la sconfitta democratica è stata subito sfruttata da quest’ultimo per rivendicare l’ottimo stato di salute di cui godrebbe il suo movimento populista e ultra-nazionalista.

Per spiegare il fallimento del Partito Democratico è utile aggiungere anche un’altra considerazione. Due questioni caldissime e di estremo rilievo per la situazione politica ed economica americana sono state infatti totalmente assenti dalla campagna elettorale nelle scorse settimane. A giudicare dalla condotta dei candidati democratici in corsa per le varie cariche a livello statale e municipale, cioè, l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso fomentato o più probabilmente organizzato da Trump e dalla sua cerchia sarebbe ormai un dettaglio archiviato, nonostante i particolari incriminanti che continuano a emergere riguardo alle responsabilità del Partito Repubblicano. Inoltre, il dilagare degli scioperi in molte grandi industrie americane e le rivendicazioni dei lavoratori non sono mai entrati seriamente nel dibattito democratico, anche se, ad esempio, proprio in Virginia nel corso del 2021 si erano verificate due massicce mobilitazioni dei dipendenti della Volvo, in buona parte in opposizione allo stesso sindacato automobilistico.

Anche se mancano dodici mesi alle elezioni di “metà mandato”, è improbabile che i risultati di martedì diano una scossa al Partito Democratico. Come accaduto in passato e alla luce della natura del partito, si verificherà piuttosto un’ulteriore deriva verso destra, con i leader democratici che avvertiranno come le velleità dell’ala “progressista” debbano essere ulteriormente ridimensionate vista la minacciosa avanzata dei repubblicani.

Gli stessi fattori che hanno deciso la competizione in Virginia hanno influito anche sulla sfida per la carica di governatore del New Jersey, l’altra elezione con le maggiori implicazioni nazionali di questa settimana. Qui potrebbe in realtà essere confermato il governatore democratico uscente Phil Murphy al termine del conteggio dei voti espressi, ma il solo fatto che il candidato repubblicano, Jack Ciattarelli, sia in pratica appaiato al suo rivale è politicamente rilevante. Il New Jersey è uno stato tradizionalmente democratico e qui nel novembre 2020 Biden si era imposto con un margine ancora più ampio che in Virginia.

Nella stessa giornata di martedì si sono tenute numerose altre elezioni a livello locale. La più importante, anche se dall’esito del tutto scontato, è stata quella per il sindaco di New York. Nella metropoli, a succedere Bill de Blasio, che ha esaurito i due mandati previsti dalla legge, sarà l’ex capitano di polizia Eric Adams, impostosi molto nettamente sul repubblicano Curtis Sliwa. L’afro-americano Adams aveva l’elezione di fatto già in tasca dopo il successo nelle primarie democratiche.

Dopo la fine dell’era del finto progressismo di de Blasio, il mandato di Adams, massicciamente finanziato dall’industria delle costruzioni, si preannuncia differente anche a livello di immagine. Al di là di qualche slogan sulla necessità di rimediare alle colossali disuguaglianze che de Blasio non ha nemmeno scalfito, i punti cardine della sua agenda sono stati la lotta alla criminalità, ovvero quasi sempre una scorciatoia per evitare di affrontare seriamente i problemi sociali, e l’affondamento definitivo delle richieste di riforma della polizia, protagonista anche a New York di innumerevoli abusi e violenze in questi ultimi anni.

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