Il nodo dei negoziati sulla questione del nucleare iraniano, ripresi questa settimana a Vienna dopo cinque mesi di stallo, sembra a prima vista piuttosto semplice: il governo americano guidato dal presidente Biden dovrebbe semplicemente invertire la decisione presa da Trump nel 2018 e rientrare nell’accordo stipulato tre anni prima con Teheran e altri cinque paesi (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania). In realtà, i colloqui in corso sono complicati da svariati fattori, principalmente di ordine strategico, che rischiano di far saltare le trattative e accelerare l’escalation dello scontro nella regione mediorientale.

 

La lunga pausa nei negoziati è dovuta al passaggio di consegne ai vertici della Repubblica Islamica dopo le elezioni che avevano riportato al governo un’amministrazione conservatrice, quella del presidente Ebrahim Raisi. La delegazione iraniana ha ad ogni modo spiegato in maniera molto chiara i punti cardine della propria strategia negoziale, assieme ai pochi obiettivi fissati nel quadro delle discussioni in programma a Vienna. Il responsabile del team iraniano inviato nella capitale austriaca, Ali Bagheri Kani, ha spiegato in sostanza che, per prima cosa, Washington deve cancellare tutte le sanzioni imposte da Trump dopo il ritiro unilaterale dall’accordo del 2015 (JCPOA). In secondo luogo, per evitare il ripetersi della situazione di questi ultimi anni, gli USA dovranno garantire che non ci sarà una nuova marcia indietro sugli impegni presi con Teheran.

Le richieste iraniane sono oggettivamene ragionevoli. L’amministrazione Trump aveva deciso l’uscita dal JCPOA nonostante l’Iran avesse sempre rispettato i termini dell’accordo. Dopo un anno di attesa e la mancata promessa degli altri firmatari, soprattutto dei tre governi europei (E3), di creare un meccanismo che consentisse comunque alla Repubblica Islamica di raccogliere i benefici del JCPOA, il governo di questo paese aveva deciso, nel rispetto dell’accordo stesso, di svincolarsi dagli impegni e di riprendere le attività di arricchimento dell’uranio a scopi civili.

Di fronte alla relativa semplicità della situazione, gli Stati Uniti e sostanzialmente anche l’Europa hanno preferito continuare a creare confusione attorno alla riesumazione del JCPOA. La tattica preferita è stata quella di allargare i confini dei negoziati, così da includere altre questioni diverse dal nucleare e che, in definitiva, rappresentano la vera ragione della campagna anti-iraniana in corso da anni. Se, cioè, anche i più feroci accusatori non credono, nonostante la retorica, al pericolo che l’Iran si possa dotare di armi atomiche, il rafforzamento delle alleanze della Repubblica Islamica in Medio Oriente e il suo programma missilistico convenzionale sono invece grattacapi reali che mettono in discussione l’egemonia americana e la supremazia militare di Israele.

Uno degli auspici americani in vista dei negoziati di Vienna era di mandare in porto quanto meno un accordo provvisorio per rimettere in piedi il JCPOA e guadagnare tempo per gettare le basi di una discussione con l’Iran relativamente agli equilibri della sicurezza regionale. Da parte di Teheran c’è subito stata una certa freddezza per questa ipotesi che, ad esempio, avrebbe offerto ben poche garanzie vista la risaputa incapacità dei governi USA di mantenere i propri impegni. In generale, come ha spiegato un’analisi pubblicata a inizio settimana dalla testata iraniana in lingua inglese Tehran Times, la strategia americana ed europea è stata di “diffondere pessimismo”, definendo “rigide” o “massimaliste” le richieste dei rappresentanti della Repubblica Islamica, nella speranza di attribuire alla mancata flessibilità di questi ultimi l’eventuale fallimento delle trattative.

Lo sforzo americano è supportato in questo senso dalla stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), incaricata del monitoraggio delle attività nucleari iraniane. In una recente riunione dell’agenzia ONU, il suo direttore Rafael Grossi ha così denunciato l’atteggiamento delle autorità iraniane per l’insufficiente collaborazione e per la decisione di andare oltre i limiti all’arricchimento dell’uranio fissati dal JCPOA. Ancora una volta, tuttavia, il problema risiede nel fatto che i termini dell’accordo non sono più vincolati per l’Iran, dal momento che sono stati gli USA a decidere di abbandonarlo unilateralmente.

L’altro elemento di pressione è rappresentato dalla campagna di Israele per boicottare le discussioni in corso a Vienna. Esponenti del governo di Tel Aviv hanno ribadito nei giorni scorsi che non si riterranno vincolati da un eventuale nuovo accordo e, di conseguenza, in base alle loro valutazioni circa lo status del programma nucleare di Teheran, si riservano di ricorrere a qualsiasi mezzo, incluso quello militare. Giusto per far salire le tensioni in concomitanza con la ripresa dei negoziati, sono circolare inoltre alcune notizie potenzialmente allarmanti, come quella dello scorso ottobre sulle esercitazioni condotte dalle forze armate di Israele per simulare un attacco contro le installazioni nucleari della Repubblica Islamica.

A questo gioco non ha mancato peraltro di partecipare nemmeno il governo americano, anche se in questo caso entrano in gioco altri fattori, tra cui la necessità di tenere buoni i “falchi” repubblicani e democratici al Congresso, nonché appunto il governo israeliano, in previsione di un possibile accordo con Teheran. Il numero uno del Comando Centrale USA, generale Kenneth McKenzie, ha in ogni caso avvertito in una recente intervista alla rivista Time che l’opzione militare è già pronta nel caso le trattative dovessero naufragare. La minaccia dovrebbe servire a esercitare pressioni sul governo iraniano per fare concessioni significative a Vienna, quando in realtà sarebbero gli americani a dovere semplicemente invertire la decisione di Trump e tornare al rispetto dei termini del JCPOA.

Per riassumere l’intero scenario, Teheran desidera la rimozione delle sanzioni per instaurare relazioni commerciali e di altra natura con qualsiasi paese del pianeta, ma da parte di Washington sembra esserci una qualche disponibilità a considerare questa ipotesi solo se l’interlocutore acconsentisse a mettere sul tavolo il proprio ascendente regionale, ovvero l’arco delle alleanze nel mondo sciita in larga misura orientato a combattere l’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Su questo punto c’è evidentemente una radicale diversità di vedute tra le parti.

La situazione è complicata anche dal fatto che l’amministrazione Biden sembra consapevole di come il ristabilimento del JCPOA resti l’unico strumento per evitare un conflitto rovinoso che il suo stesso paese, reduce dalla “performance” afgana, non sembra desiderare, fatto salvo per alcuni ambienti guerrafondai del “deep state”. D’altro canto, però, un nuovo accordo che includa solo l’annullamento delle sanzioni e la reintroduzione dei vincoli al programma nucleare di Teheran rischia, dal punto di vista USA, di dare piena legittimazione alle aspirazioni della Repubblica Islamica e, malgrado la potenziale riapertura di collaborazioni in ambito commerciale ed energetico con l’Occidente, di rafforzare un sistema di alleanze e di partnership strategiche sostanzialmente alternativo a quello a guida americana.

Le chances USA di ottenere un accordo vantaggioso sono limitate anche da una realtà regionale molto cambiata rispetto al 2018, quando alla Casa Bianca sedeva Donald Trump. Come ha fatto notare l’ex diplomatico italiano Marco Carnelos in un’analisi pubblicata sulla testata on-line Middle East Eye, la posizione dell’Iran nei negoziati di Vienna è rafforzata da una serie di sviluppi che in Medio Oriente stanno favorendo proprio gli interessi strategici della Repubblica Islamica. L’ex ambasciatore in Iraq ha elencato la situazione in paesi come Yemen, Libano e Siria, dove le rispettive crisi stanno evolvendo a vantaggio di Teheran, per poi ricordare anche come il fronte arabo-sunnita stia cercando di ristabilire normali rapporti con il tradizionale nemico sciita. Ciò è evidente dagli svariati round di discussioni tenute negli ultimi mesi tra Iran e Arabia Saudita, così come dai recenti incontri tra le diplomazie di Iran ed Emirati Arabi Uniti.

L’osservazione di Carnelos solleva la questione dell’aumentata influenza iraniana sul piano internazionale a partire proprio dall’implementazione della politica della “massima pressione” di Trump che, invece, avrebbe dovuto ottenere l’esito opposto. Visto il fallimento della linea dura, quindi, è difficile pensare a risultati diversi se l’eventuale fallimento delle trattative di Vienna per resuscitare il JCPOA dovesse spingere Washington a intensificare l’offensiva anti-iraniana.

In conclusione, le carte in mano a Biden risultano oggi più deboli rispetto ai tempi dei negoziati del 2015, poiché le stesse fallimentari decisioni americane hanno finito per rafforzare la “resistenza” iraniana e spingere la classe dirigente di questo paese a guardare altrove, principalmente a oriente, per rompere l’isolamento forzato. Un isolamento che è oggi solo un elemento della propaganda occidentale, mentre la Repubblica Islamica, nonostante l’interesse effettivo per la rimozione delle sanzioni USA, può contare come alternativa ormai più che percorribile sulle partnership quasi a tutto tondo coltivate con altre potenze regionali e globali, a cominciare dalla Russia e dalla Cina.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy