Se osservato da una prospettiva diversa da quella euro-atlantica, l’isolamento della Russia in queste settimane appare molto meno evidente di quanto i governi e la stampa ufficiale cerchino di far credere. Anzi, non sono pochi gli stessi alleati e partner di Stati Uniti ed Europa ad avere resistito alle pressioni per denunciare l’intervento militare di Mosca in Ucraina, preferendo mantenere una politica estera indipendente senza la tendenza al servilismo e all’autolesionismo evidenziata da questa parte dell’Atlantico. Uno dei casi più eclatanti, oltre a quelli europei, dall’Ungheria alla Serbia, è quello degli Emirati Arabi Uniti (UAE), i cui leader sembrano ben decisi a non lasciare che il conflitto in corso e la propaganda occidentale diventino un ostacolo al riallineamento strategico euro-asiatico a cui il loro paese e gli altri regimi del Golfo partecipano attivamente.

 

Il ricorso alla diplomazia come strumento per la risoluzione di crisi internazionali non è ormai più prerogativa dell’Occidente, dove si prediligono sanzioni e strumenti di propaganda che conducono soltanto in un vicolo cieco. È paradossalmente invece una regione dominata da dittature e regimi autoritari a mostrare maggiore apertura e disponibilità al dialogo, anche se, come per qualsiasi altro paese del pianeta, con l’obiettivo primario di difendere i rispettivi interessi economici e strategici.

Così, solo nell’ultima settimana i diplomatici di quattro paesi dell’area mediorientale – EAU, Iran, Qatar e Turchia – si sono recati a Mosca per discutere della situazione attuale, offrendo una qualche mediazione con Kiev e cercando soprattutto di tenere in piedi i progetti di collaborazione esistenti in vari ambiti con la Russia. La visita in particolare del ministro degli Esteri emiratino, Abdullah al-Nahyan, a Mosca è stata giudicata da molti come una dimostrazione della volontà di Abu Dhabi di salvaguardare la partnership costruita in questi anni con la Russia e, se possibile, di “sviluppare ulteriormente i rapporti” bilaterali e “diversificare le aree di cooperazione”.

La direzione diametralmente opposta a quella seguita dall’Occidente verso cui gli Emirati intendono orientare le relazioni con Mosca è facilmente interpretabile come un vero e proprio schiaffo agli sforzi americani di isolare la Russia. Come ha riassunto l’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar in un’analisi pubblicata nel fine settimana dal sito libanese indipendente The Cradle, “uno a uno, i paesi del Golfo [Persico] stanno cercando la Russia per esprimere la loro solidarietà e far conoscere il desiderio di svincolarsi dall’egemonia americana”.

L’ambito nel quale si gioca in buona parte il confronto tra gli Stati Uniti e i paesi del Golfo è naturalmente quello del petrolio. I regnanti di EAU e Arabia Saudita si sono di recente addirittura rifiutati di parlare con il presidente americano Biden che intendeva chiedere un aumento della produzione di greggio per far fronte al possibile venir meno di quello russo oggetto di sanzioni. Nei giorni scorsi, una trasferta nel Golfo con lo stesso obiettivo del primo ministro britannico, Boris Johnson, ha avuto lo stesso esito. Dopo gli incontri in programma e il suo ritorno a Londra, non ci sono state dichiarazioni ufficiali di un imminente incremento delle estrazioni saudite ed emiratine.

Americani ed europei puntano chiaramente a smantellare il meccanismo che negli ultimi due anni ha regolato l’immissione di greggio sui mercati internazionali e che, sotto il nome di “OPEC+”, include i paesi membri del cartello con sede a Vienna e, appunto, la Russia. Nulla per il momento sembra dunque far pensare a un abbandono da parte di Riyadh e Abu Dhabi di questa formula, che ha evidentemente implicazioni più ampie del solo settore petrolifero. L’attitudine saudita è emersa ancora lunedì dopo la notizia di un nuovo bombardamento di installazioni petrolifere da parte dei “ribelli” Houthis yemeniti. La monarchia wahhabita, con evidente riferimento alle pressioni di Washington, ha fatto sapere che non sarà responsabile dell’eventuale riduzione della quantità di greggio che potrebbe arrivare sui mercati a causa dell’ultimo attacco.

Che quest’ultimo sia un messaggio diretto alla Casa Bianca si deduce dallo scontento già più volte manifestato dai vertici sauditi per il venir meno – reale o percepito – dell’impegno americano davanti alle crescenti offensive degli Houthis, contro cui Riyadh combatte una guerra sanguinosa dal 2015. Direttamente collegato a questi sviluppi è anche il colloquio telefonico di settimana scorsa tra il sovrano del Bahrein Hamad bin Isa al-Khalifa, di fatto stato vassallo dell’Arabia Saudita, e il presidente russo Putin, anche in questo caso per rafforzare i “rapporti amichevoli” tra i due paesi. La telefonata tra i due leader è particolarmente interessante se si considera che il Bahrein ospita una mega base militare americana, sede del Comando Centrale delle forze navali USA.

Ci sono ad ogni modo altri eventi recenti che indicano come il costituirsi di un nuovo paradigma strategico in Medio Oriente stia proseguendo nonostante la crisi ucraina, letta dai governi della regione in maniera indiscutibilmente diversa rispetto agli USA e all’Europa. I riflessi del conflitto nel paese dell’ex Unione Sovietica si sono fatti sentire con ogni probabilità anche su un evento relativamente sorprendente registrato la scorsa settimana, cioè la visita del presidente siriano Assad negli Emirati.

Il benvenuto riservato a quest’ultimo ad Abu Dhabi è in definitiva un’altra espressione delle frustrazioni che circolano nel Golfo per l’amministrazione Biden. Gli Stati Uniti hanno da tempo a loro volta manifestato la ferma contrarietà alla riabilitazione del legittimo governo siriano, ma questo processo, sia pure tra moltissimi ostacoli, sta procedendo in quasi tutto il mondo arabo. La sorta di “affronto” degli Emirati agli USA con l’accoglienza riservata a quello che per Washington resta un paria ed è da oltre un decennio l’obiettivo di un’operazione di cambio di regime, fallita in gran parte grazie alla Russia, sembra dunque un altro modo per segnalare la crescente importanza della partnership strategica con Mosca.

L’accademico americano esperto di questioni siriane, Joshua Landis, ha spiegato che “gli Stati Uniti vogliono tenere la Siria isolata per punire la Russia, ma gli arabi non intendono collaborare”, a suo parere perché ritengono “che gli USA non hanno preso sufficientemente in considerazione i loro interessi”. È chiaro che non si tratta soltanto di percezioni o di questioni legate alla “sicurezza”, dal momento che le partnership tra i paesi del Golfo e la Russia, così come e ancor più con la Cina, si sono consolidate in vari ambiti. Gli scambi commerciali tra Mosca e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, EAU, Bahrein, Kuwait, Qatar, Oman) hanno ad esempio raggiunto i 4 miliardi di dollari nel 2021.

La freddezza degli Emirati nei confronti di Washington si è vista infine anche alle Nazioni Unite. In modo clamoroso, i rappresentanti del regime di Abu Dhabi, poco dopo l’inizio delle operazioni di Mosca in Ucraina, si erano astenuti dal votare una risoluzione di condanna della Russia al Consiglio di Sicurezza. Gli EAU avevano invece in seguito dato voto favorevole a una seconda risoluzione all’Assemblea Generale, ma probabilmente perché di carattere in larga misura simbolico.

Il coordinamento tra le posizioni russe ed emiratine si deduce da almeno due eventi. Il primo era stato il colloquio telefonico tra il ministro degli Esteri di Mosca, Sergey Lavrov, e la sua controparte degli EAU esattamente un giorno prima dell’inizio delle operazioni militari in Ucraina. Sempre all’ONU, poi, con una decisione apparentemente contraria agli interessi dei partner di Mosca in Medio Oriente, a cominciare dall’Iran, per la prima volta la Russia aveva votato a favore del prolungamento dell’embargo sulle armi nei confronti dei “ribelli” Houthis sciiti nell’ambito della guerra in Yemen.

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