Il ritorno a Washington di Donald Trump per la prima volta dopo l’addio alla Casa Bianca ha attestato per l’ennesima volta negli ultimi diciotto mesi il sostanziale controllo esercitato dall’ex presidente su un Partito Repubblicano ben avviato a diventare un movimento ultra-populista dai tratti apertamente fascisti. A poche settimane dalle elezioni di “metà mandato” e a meno di un anno e mezzo dall’inizio delle primarie per le presidenziali, le quotazioni dell’ex presidente restano altissime e le responsabilità di questa situazione sono tutte dell’amministrazione Biden e dei democratici.

 

Trump ha tenuto martedì un discorso durante un evento organizzato dall’America First Policy Institute (AFPI), un “think tank” fondato nel marzo dell’anno scorso da ex membri della sua amministrazione. L’intervento ha seguito di pochi giorni la chiusura di una sessione di udienze davanti alla speciale commissione della Camera dei Rappresentanti, incaricata di indagare sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, che avevano fatto emergere nuovi esplosivi elementi relativi all’organizzazione del fallito golpe.

In circa 90 minuti, l’ex presidente si è lanciato in una delle solite tirate contro il sistema dominato dalle élites “liberal” e sull’orlo di una crisi sociale dovuta, a suo dire, al dilagare della criminalità e dell’immigrazione irregolare. Sulle basi di questa emergenza vera o presunta, Trump ha proposto misure da vero e proprio stato di polizia, accompagnate da attacchi frontali a ciò che resta del welfare negli Stati Uniti.

Un altro fronte dell’offensiva retorica trumpiana è stata la battaglia contro la “minaccia” cinese, collegata alla tesi dell’origine in un laboratorio di Wuhan del virus del Covid. Al centro del discorso c’è stata però ancora una volta la denuncia della “cospirazione” elettorale concretizzatasi nella “vittoria rubata” di Joe Biden, a causa della quale Trump e i repubblicani continuano a proporre e a implementare a livello statale leggi sempre più restrittive del diritto di voto, dirette soprattutto contro gli elettori appartenenti alle minoranze etniche e alle classi più disagiate.

L’insistenza di Trump sulla questione del voto del 2020 rimanda necessariamente al ruolo della già citata commissione d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio 2021 e, più in generale, allo stato di avanzato degrado dell’impalcatura democratica americana. Mentre l’ex presidente continua indisturbato la sua attività politica, che potrebbe portarlo a una nuova candidatura alla Casa Bianca nel 2024, gli ultimi diciotto mesi hanno messo a disposizione dell’opinione pubblica un lungo elenco di prove del ruolo dello stesso Trump nell’attacco violento al Campidoglio per fermare la certificazione della vittoria di Biden.

Oltre alle sue responsabilità, si è fatta luce sulle evidenti complicità nell’organizzazione del golpe, con il coinvolgimento dei membri dello staff della Casa Bianca, dell’amministrazione, del Congresso e delle forze di sicurezza. Quanto meno, gravissimi sospetti e interrogativi sono scaturiti dalle udienze davanti alla speciale commissione, ma i suoi membri, quasi tutti del Partito Democratico, così come l’amministrazione Biden e la stampa ufficiale, continuano ad adoperarsi per un sostanziale occultamento della verità. L’obiettivo è cioè di attribuire al solo Trump l’intera responsabilità dell’accaduto e, tutt’al più, ai militanti di estrema destra che hanno partecipato materialmente all’assalto del 6 gennaio.

Se così fosse, Trump sarebbe oggi isolato ed emarginato come potenziale golpista all’interno di un Partito Repubblicano che i vertici democratici continuano a trattare nel suo insieme come un attore responsabile e indispensabile al funzionamento della democrazia americana. Lo spettacolo a cui si è assistito nella conferenza di questa settimana dell’AFPI smentisce però clamorosamente questa versione. I riferimenti di Trump all’illegittimità della vittoria elettorale di Biden sono stati infatti accolti dal tripudio dei presenti all’evento, tutti disposti a riconoscere la leadership dell’ex presidente e l’identificazione della sua agenda fascistoide con la piattaforma elettorale del partito.

È interessante notare come all’evento dell’AFPI abbiano parlato, tra gli altri, anche il leader di minoranza alla Camera Kevin McCarthy e il senatore del Texas Ted Cruz. Alla conferenza erano presenti inoltre una decina di senatori  e 13 deputati del Partito Repubblicano, ma anche otto membri della precedente amministrazione e tre ex governatori repubblicani. Se mai fosse stato necessario, questo livello di partecipazione conferma come Trump sia tutt’altro che isolato per le sue responsabilità nel tentato colpo di stato del gennaio 2021. Al contrario, il clima che si è respirato a Washington testimonia di un Partito Repubblicano in larga misura allineato ai piani ultra-reazionari di Trump e, con ogni probabilità, ai nuovi progetti di appropriazione delle leve del potere se le prossime elezioni non dovessero avere l’esito desiderato.

Va ricordato d’altra parte che le manovre tentate tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 per rovesciare il risultato delle presidenziali non furono confinate alla cerchia di Trump, ma arrivavano anche dentro le istituzioni. Basti pensare che, dopo i fatti del 6 gennaio, 8 senatori e ben 139 deputati repubblicani votarono contro la certificazione della vittoria di Biden nei “collegi elettorali” a livello statale, nonostante tutti i ricorsi e le cause legali intentati dai legali di Trump fossero stati respinti.

In previsione dei prossimi appuntamenti con le urne, Trump sta in definitiva riproponendo la stessa strategia che gli permise di sconfiggere Hillary Clinton. Come allora, l’ex presidente repubblicano intende puntare sull’enfatizzazione dello stato di decadimento degli Stati Uniti, peraltro in larga misura corrispondente alla realtà, con una classe dirigente “liberal” fissata su questioni di razza e di genere mentre l’economia va a rotoli e la sicurezza degli americani è totalmente trascurata. Questa linea d’attacco, davanti al completo disinteresse dei democratici per le questioni sociali e le difficoltà delle fasce più deboli della popolazione, permette al populismo di Trump di rilanciarsi nuovamente come unica forza politica anti-sistema in grado di difendere la classe media americana e i veri interessi nazionali.

Il solleticare gli istinti più retrogradi di un elettorato disorientato ed escluso da qualsiasi decisione di carattere politico o economico comporta inevitabilmente la promozione di misure reazionarie, come ad esempio la chiusura dei confini, la ghettizzazione dei senzatetto, l’imposizione di condanne draconiane per reati come il traffico di droga o la totale liberalizzazione del possesso di armi da fuoco. Tutto ciò e altro ancora ha trovato spazio nel discorso di Trump di martedì a Washington e, allo stesso tempo, questi stessi elementi finiscono per invadere l’agenda dell’ala teoricamente “moderata” del Partito Repubblicano, spingendo quest’ultimo sempre più a destra.

A questo proposito, la stampa ufficiale americana ha discusso ampiamente del discorso pubblico tenuto dall’ex vice-presidente, Mike Pence, sempre a Washington e nello stesso giorno dell’intervento di Trump all’AFPI. Pence è stato invitato da un altro ente conservatore, la Young America’s Foundation, e secondo l’interpretazione mediatica ufficiale avrebbe offerto una sorta di contrappunto “moderato” e pro-establishment a Trump, decisamente più gradito all’apparato di potere in previsione elettorale.

In realtà, l’apparizione pubblica di Pence ha se mai rafforzato la tesi dell’appiattimento del Partito Repubblicano sulle posizioni trumpiane, in una corsa verso destra che, includendo gli stessi democratici, minaccia di spingere l’America verso il baratro. L’ex vice-presidente ha infatti contraddetto Trump solo sui fatti del 6 gennaio 2021, sia pure senza denunciarli apertamente, mentre per il resto ha cercato in tutti i modi di uniformarsi all’attitudine populista che regna nel partito, arrivando ad affermare che non potrebbe “essere più orgoglioso dei risultati ottenuti” dalla precedente amministrazione.

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