Quella che si prospetta come la settimana più complicata dell’ancora breve mandato alla guida del governo britannico di Liz Truss è iniziata lunedì con il primo intervento alla Camera dei Comuni del nuovo Cancelliere dello Schacchiere – o ministro delle Finanze – Jeremy Hunt, che ha segnato la fine precoce dei piani di politica economica che solo ai primi di settembre avevano contribuito all’elezione dell’attuale primo ministro a nuovo leader del Partito Conservatore. Il flop della Truss era ampiamente annunciato, ma la rapidità con cui il nodo sembra stringersi attorno al collo dell’ex ministro degli Esteri di Londra era prevista da pochi. La gravità della crisi che sta attraversando la Gran Bretagna, in primo luogo a causa della guerra in Ucraina e delle (auto-)sanzioni dirette in teoria contro la Russia, minaccia ora un nuovo avvicendamento ai vertici del governo se non una clamorosa elezione anticipata.

 

Hunt era stato chiamato per sostituire la prima scelta di Liz Truss, Kwasi Kwarteng, dopo che il cosiddetto “mini-bilancio” presentato da quest’ultimo a settembre era andato incontro a un umiliante precocissimo fallimento. Il budget studiato dalla premier e dall’ormai ex Cancelliere puntava a tagliare una serie di imposte per i redditi più alti, in particolare riducendo l’aliquota massima prevista dal sistema fiscale inglese. Il pacchetto sarebbe costato circa 45 miliardi di sterline e si basava in larga misura sull’aumento del debito pubblico del Regno.

La risposta dei mercati era stata impietosa, con la sterlina in picchiata e i rendimenti dei titoli di stato in rapida salita, riflettendo i timori circa la formazione di una vera e propria voragine nel bilancio pubblico di Londra. Le ripercussioni politiche, allo stesso modo, non si sono fatte attendere. Un numero crescente di deputati conservatori ha cominciato a esprimere pubblicamente le proprie perplessità nei confronti di una premier già in una posizione più che precaria.

Alla fine, Liz Truss è corsa ai riparti licenziando Kwarteng dopo appena 38 giorni dal conferimento dell’incarico di Cancelliere dello Scacchiere e, fondamentalmente, per avere preparato il progetto di bilancio voluto dallo stesso primo ministro. Probabilmente dietro pressioni degli ambienti di potere “tories” e dei grandi interessi finanziari, al posto di Kwarteng è stato scelto appunto l’ex ministro degli Esteri, Jeremy Hunt. Da subito, la decisione è sembrata implicare l’emarginazione o il commissariamento della premier in attesa di un possibile successore.

La Truss e Hunt si sono così incontrati domenica nella residenza di campagna dell’inquilino di Downing Street per concordare la nuova direzione da dare all’economia del paese. Le linee guida del nuovo bilancio presentate lunedì sono apparse però come la conferma che la politica economica non sarà più pertinenza del primo ministro. Nella sua apparizione al parlamento, anticipata da quella televisiva in mattinata, Hunt ha infatti drasticamente ridimensionato anche quello che era in pratica l’unico provvedimento rimasto tra quelli inizialmente voluti dalla Truss.

Il tetto universale ai prezzi dell’energia fissato per i prossimi due anni durerà cioè solo fino all’aprile 2023, mentre in seguito riguarderà solo i redditi più bassi. Il nuovo pacchetto scritto da Hunt, secondo le sue stesse parole, porterà “fiducia e stabilità” alla Gran Bretagna, oltre che un risparmio di 32 miliardi di sterline l’anno. La nuova priorità di Hunt sarà dunque la “sostenibilità” del bilancio pubblico, così che a farne le spese non saranno solo i tagli alle tasse regressivi rivolti ai più ricchi, ma anche altri provvedimenti di portata più ampia come la riduzione delle tasse sul lavoro, dell’aliquota più bassa dal 20% al 19% e dell’IVA su determinati beni.

Il problema politico principale che deriva dai nuovi eventi ha appunto a che fare con la posizione del primo ministro. In primo luogo, il brusco cambio di rotta implica l’innesco di tensioni sociali esplosive. Anche se l’abortito “mini-bilancio” di Truss e Kwarteng non aveva nulla di progressista, quello di Hunt appena presentato rimette in tutto e per tutto l’austerity in cima alle priorità del governo. Inoltre, come già anticipato, è del tutto possibile, anzi probabile, che i malumori crescenti dentro il Partito Conservatore finiranno per costringere Liz Truss alle dimissioni in un futuro non troppo lontano.

La premier, al di là di quanto tempo riuscirà a guadagnare grazie all’arrivo di Hunt nella squadra di governo e alle regole interne al partito per la selezione della leadership, sembra essersi giocata tutto il proprio capitale politico. Fino a domenica, tre membri conservatori del parlamento erano venuti allo scoperto per chiedere la testa della Truss e un quarto si è subito aggiunto dopo il discorso televisivo del nuovo Cancelliere. A giudicare dalla storia recente e, soprattutto, dalla sorte di Boris Johnson, ci si può facilmente aspettare il moltiplicarsi delle richieste di dimissioni.

Il Sunday Times ha scritto nel fine settimana che un centinaio di deputati conservatori avrebbero già sottoscritto una lettera di sfiducia nei confronti di Liz Truss. I suoi oppositori starebbero valutando il possibile successore. Il nome che circola maggiormente è quello dell’ex Cancelliere, Rishi Sunak, sconfitto nel ballottaggio finale dalla Truss nel recente voto per la leadership “tory”. Sunak sarebbe molto gradito all’industria finanziaria britannica ed è visto come un elemento di stabilità, oltre che un possibile leader in grado di far recuperare consensi al partito in previsione delle elezioni del 2024.

I tempi per una mozione di sfiducia contro l’attuale leader dei “tories” non sono in ogni caso ancora maturi, quanto meno per ragioni di ordine legale. Le procedure del partito di governo britannico prevedono che non si possa tenere un voto interno nei primi dodici mesi dall’elezione del nuovo leader. Tuttavia, la regola può essere cambiata se esiste un consenso sufficiente per muoversi in questa direzione.

Il presidente della commissione del Partito Conservatore che si occupa tra l’altro delle regole interne al partito (“1922 Committee”), Graham Brady, ha incontrato Liz Truss nella giornata di lunedì ed è verosimile che i due abbiano discusso della posizione della premier e di possibili soluzioni per superare la crisi del partito. Un recente commento pubblicato dal Guardian ha citato una fonte governativa secondo la quale, per il momento, non ci sarebbero piani concreti per “sfidare” la leadership della Truss, visto che non è emerso ancora nessun “ovvio successore”. Un esponente della fronda anti-Truss ha invece escluso che il primo ministro riesca a sopravvivere politicamente, essendo la sua credibilità ormai “sotto lo zero”.

Al di là delle questioni di forma, se le pressioni su Liz Truss dovessero aumentare, la sua posizione diventerebbe insostenibile e la perdita di fiducia definitiva nel partito sarebbe sufficiente a decretarne la fine. Come ha ricordato ancora il Guardian, d’altra parte, nel caso sia di Theresa May sia di Boris Johnson, bastò l’avvertimento del possibile cambio delle regole interne al partito sull’elezione di un nuovo leader per convincerli a rassegnare le dimissioni prima di un umiliante voto di sfiducia.

Su un piano più generale, il nuovo aggravamento della crisi politica in Gran Bretagna è la conseguenza dell’onda lunga di un processo legato alla “Brexit” non ancora completato e, ancor più, della decisione disastrosa da parte di Londra di abbracciare la crociata anti-russa promossa dagli Stati Uniti. Le condizioni economiche del paese e i problemi per la gran parte delle famiglie britanniche erano iniziati a peggiorare già dopo poche settimane dall’inizio delle operazioni militari russe e dall’implementazione delle prime (auto-)sanzioni. Come per il resto dell’Europa, le cose sono poi precipitate nei mesi successivi, fino a mettere in dubbio la stabilità stessa di molti paesi.

Per quanto riguarda la Gran Bretagna, inoltre, l’intero sistema rimane “ostaggio” di un Partito Conservatore lacerato al proprio interno e pronto a tutto pur di evitare un voto anticipato che i sondaggi più recenti preannunciano a dir poco rovinoso. Resta il fatto che, anche in caso di elezioni relativamente a breve, non esiste di fatto nessuno piano B. Il Partito Laburista, dato nettamente in vantaggio, è guidato da una leadership, come quella di Keir Starmer, totalmente appiattita sulle posizioni ultra-atlantiste e anti-russe dei conservatori.

Identico discorso vale per le politiche economiche, che non cambierebbero di molto rispetto a quelle ultra-liberiste disastrosamente implementate dai governi “tories” succedutisi negli ultimi anni. L’agonia britannica è destinata quindi a durare ancora a lungo, mentre l’unico aspetto positivo, come ha spiegato in un commento sul suo blog Indian Punchline l’ex diplomatico indiano, M. K. Bhadrakumar, è che “la capacità del Regno Unito di alimentare la guerra in Ucraina diminuisca drasticamente in parallelo alla battaglia che questo paese sta conducendo per la propria sopravvivenza”.

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