La nuova operazione militare inaugurata dalla Turchia contro le milizie curde in Siria e in Iraq ha messo nuovamente in luce il precario stato delle relazioni all’interno della NATO e, in particolare, tra il governo di Ankara e gli Stati Uniti. Da Washington è arrivata comunque una mezza approvazione dei bombardamenti ordinati da Erdogan, mentre la Russia ha invitato quest’ultimo alla moderazione, sia pure concedendo alla Turchia l’uso dello spazio aereo nel nord della Siria, che Mosca controlla di fatto. Dietro all’atteggiamento cauto dell’amministrazione Biden si nascondono appunto tensioni che durano ormai da anni e sono strettamente collegate alla crisi interna al Patto Atlantico, sempre più visibile anche negli sviluppi della crisi ucraina.

 

L’offensiva turca oltre il confine meridionale è ufficialmente la conseguenza dell’attentato terroristico avvenuto a Istanbul una decina di giorni fa e che Ankara aveva subito attribuito al PKK e al suo omologo siriano YPG (“Unità di Protezione Popolare”). Le bombe turche sono iniziate a cadere nella serata di domenica e, secondo le autorità di Ankara, avrebbero già eliminato qualche centinaia di “terroristi” curdi. Erdogan ha inoltre lasciato intendere che, a breve, potrebbe seguire un intervento di terra nelle aree controllate dai curdi nel nord-est della Siria. Se ciò dovesse accadere, si tratterebbe della quarta operazione di terra turca condotta in Siria dall’inizio del conflitto in questo paese.

Martedì, un bombardamento delle forze di Ankara ha colpito una base delle Forze Democratiche Siriane (SDF) in una località a meno di 50 chilometri dal confine turco e limitrofa alla struttura principale che, in quest’area, ospita il contingente militare americano stanziato illegalmente in Siria. La prudenza della stampa ufficiale ha lasciato intendere che le forze USA non siano state interessate dall’incursione turca, ma è probabile che la base colpita, anche se nominalmente occupata dalle milizie curde, sia controllata dagli americani o che in essa vi fossero militari americani. La testata on-line Al-Monitor ha scritto che la base in questione era nota per avere ospitato “delegazioni diplomatiche americane”, mentre non è chiaro se al momento dell’attacco turco fosse presente personale USA.

Nell’operazione, sempre secondo fonti citate da Al-Monitor, sarebbero morti due membri di una “unità anti-terrorismo locale sostenuta dagli Stati Uniti” e, poco più tardi, un comunicato ufficiale della “coalizione” guidata dai militari americani aveva invitato Ankara a considerare una de-escalation per limitare i rischi causati sia ai civili sia alla stabilità della regione. Nel nord-est della Siria, rimangono circa un migliaio di militari americani e un numero imprecisato di “contractors” che collaborano con le Forze Democratiche Siriane, dominate dalle milizie curde, ufficialmente per combattere ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS).

La partnership curdo-americana aveva da subito incontrato l’ostilità della Turchia, avvelenando i rapporti con gli Stati Uniti e altri alleati NATO. Il sospetto di Erdogan è che Washington utilizzi i curdi per condurre operazioni di destabilizzazione in Turchia. Infatti, dopo il recente attentato in una delle strade pedonali più frequentate di Istanbul, vari membri del governo turco e lo stesso Erdogan avevano denunciato il sostegno americano ai “terroristi” curdi. Il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, aveva addirittura paragonato l’espressione di cordoglio dell’ambasciata USA per le vittime dell’attentato al “ritorno dell’assassino sul luogo del delitto”.

Ancora martedì, nell’annunciare in TV il probabile impiego di truppe di terra in Siria, Erdogan ha avvertito che la Turchia “conosce molto bene chi protegge, arma e incoraggia questi terroristi”. Il riferimento agli Stati Uniti è chiarissimo, anche se non espresso in modo esplicito, e, assieme alle dichiarazioni precedenti, risulta oggettivamente sorprendente se si considera appunto l’alleanza tra Washington e Ankara nel quadro NATO. Ancora più eclatante è il fatto che la Turchia abbia bombardato postazioni militari in Siria dove operano le forze di occupazione USA e i loro alleati curdi.

Non solo, a parte i tiepidi inviti alla moderazione, il governo americano ha in sostanza avallato l’operazione turca. Il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, martedì ha affermato che Ankara ha “senza dubbio ogni diritto di difendersi e di difendere i propri cittadini”.

L’interrogativo principale che questa situazione suscita riguarda il livello di coesione della NATO nel momento in cui un paese membro attacca militarmente un’area occupata da un altro membro e, non solo non va incontro a nessuna conseguenza, ma il governo del secondo legittima le operazioni del primo.

È evidente che la reazione americana all’offensiva anti-curda deve tenere presente la delicatezza degli equilibri geo-strategici che riguardano il ruolo della Turchia e, in primo luogo, la natura “multi-vettoriale” della politica estera di Erdogan. Ankara continua a giocare su tutti i tavoli della politica internazionale, respingendo puntualmente le pressioni di Washington e coltivando rapporti multidimensionali con Russia e Cina. Da non dimenticare è anche la disputa in corso sull’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia, non ancora ratificata dalla Turchia a causa dell’atteggiamento di questi due paesi nei confronti dei curdi.

Una presa di posizione ufficiale più dura contro l’iniziativa anti-curda da parte americana rischierebbe di spingere ancora di più la Turchia verso Mosca, col risultato di aggravare la spaccatura all’interno della NATO. Resta il fatto che le divergenze crescenti tra Washington e Ankara rappresentano un elemento gravemente destabilizzante per l’Alleanza, sia per la posizione geo-strategica sia per il peso militare della Turchia.

Il problema per gli Stati Uniti è inoltre che lo scontro più o meno latente con Erdogan può avere riflessi potenzialmente devastanti sulla tenuta della NATO anche sul fronte europeo. Basti pensare alle tensioni che, prevalentemente sotto traccia, pervadono il vecchio continente circa l’opportunità di prolungare la guerra in Ucraina. L’unità della NATO di fronte alla “aggressione” russa e a difesa della (nazi-)democrazia ucraina è solo apparente e rischia di sfaldarsi in conseguenza del possibile imminente tracollo del regime di Zelensky e dei contraccolpi economici di un conflitto voluto e provocato dagli USA per i loro interessi strategici.

Il prolungamento e l’intensificarsi delle operazioni militari turche in Siria rischiano quindi di incrinare ancora di più i rapporti con Washington e di mettere in mostra le debolissime fondamenta su cui si basa ormai l’Alleanza Atlantica. In questa prospettiva, appare abbastanza chiara quale possa essere la risposta alla domanda di molti osservatori circa le ragioni per cui la Russia, nonostante l’alleanza con Damasco e il ruolo svolto in Siria, abbia concesso a Erdogan il via libera di fatto all’uso dello spazio aereo di questo paese per bombardare gli obiettivi curdi (e forse americani) oltre il confine meridionale turco.

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