Lo strappo tra Svezia e Turchia sulla questione dell’ingresso di Stoccolma nella NATO sembra essere diventato quasi definitivo dopo la durissima polemica esplosa a causa delle manifestazioni anti-islamiche del fine settimana. Con la presa di posizione molto netta di Erdogan, il processo di allargamento del Patto Atlantico ai due paesi scandinavi rischia così di essere messo seriamente in discussione. Non è comunque del tutto chiaro se la minaccia del presidente turco finirà per rientrare dopo le delicatissime elezioni di maggio. La vicenda solleva questioni di più ampia portata, prima fra tutte la natura contraddittoria di un’alleanza militare senza una vera ragione di esistere se non per la promozione degli interessi strategici di Washington e di quelli prettamente economici dell’industria bellica americana.

 

Le tensioni sull’asse Stoccolma-Ankara erano sul punto di esplodere già da qualche settimana e la protesta nella capitale svedese di un gruppo di sostenitori del politico danese di estrema destra Rasmus Paludan, durante la quale è stata bruciata una copia del Corano, ha rappresentato il punto di non ritorno per il governo turco. Erdogan, come già anticipato, in un discorso televisivo seguito a una riunione dell’esecutivo ha annunciato che la Turchia non appoggerà la candidatura svedese.

Le manifestazioni anti-turche organizzate a Stoccolma sono state molteplici negli ultimi giorni. In un’occasione, un gruppo di attivisti curdi aveva messo in scena l’esecuzione di un fantoccio con le sembianze di Erdogan, mandando quest’ultimo su tutte le furie. A peggiorare la situazione è stato l’atteggiamento dello stesso governo conservatore svedese del premier Ulf Kristersson, il quale ha preso le distanze dal comportamento dei dimostranti, ma ha in sostanza approvato lo svolgimento delle manifestazioni facendo riferimento alla necessità di garantire la libertà di espressione.

Questi ultimi sviluppi hanno fatto saltare la visita ad Ankara del ministro della Difesa svedese, Pål Jonson, prevista per venerdì prossimo e organizzata proprio per fermare l’escalation dello scontro tra i due paesi e spianare la strada alla ratifica dell’ingresso di Stoccolma nella NATO. Oltre alla Turchia, l’unico altro paese dell’Alleanza che non ha ancora approvato formalmente la candidatura di Svezia e Finlandia è l’Ungheria. Il primo ministro Orban ha assicurato che il ritardo è dovuto a ragioni di calendario del parlamento di Budapest e che il suo governo appoggia l’adesione dei due paesi scandinavi. Il fatto che i due unici paese a non avere ancora dato il via libera ai nuovi membri siano quelli che, in sede NATO, hanno assunto le posizioni più critiche della campagna anti-russa in atto non è però un caso.

Com’è noto, nel summit NATO di Madrid del giugno scorso la mediazione americana aveva portato a un accordo tra Turchia, Svezia e Finlandia. In base a esso, Ankara avrebbe acconsentito a ratificare le due candidature in cambio di una serie di iniziative che Stoccolma e Helsinki si impegnavano ad adottare, a cominciare dall’estradizione verso la Turchia di un certo numero di “terroristi” curdi ospitati entro i loro confini. La contesa più accesa è sempre stata con la Svezia, dove trova rifugio un numero consistente di attivisti curdi. Qualche condizione imposta dalla Turchia era stata comunque soddisfatta, ma alcune estradizioni di rilievo sono state bloccate dalla giustizia svedese, irrigidendo inevitabilmente le posizioni di Erdogan.

Le parole pronunciate lunedì da quest’ultimo sono state molto nette e sembrano lasciare poco spazio a ripensamenti. Molti commentatori si sono però chiesti se la sua fermezza sia dettata da ragioni elettorali e se dopo il voto e un’eventuale vittoria di Erdogan e del suo partito ci potrà essere un accordo sull’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia, ovviamente in cambio di qualche nuova concessione. Resta il fatto che a poche settimana da un voto molto complicato, il presidente turco non può permettersi di mostrare debolezza nei confronti dell’Occidente, soprattutto se si tiene conto dell’attitudine della popolazione, secondo i sondaggi nettamente contraria all’approvazione delle due candidature scandinave.

Se è vero che Erdogan non è nuovo a sparate massimaliste e a successivi passi indietro una volta ottenuto quanto si era prefissato, esiste più di un precedente che testimonia anche il contrario. Erdogan non aveva ad esempio sentito ragioni in occasione delle operazioni militari di terra lanciate in Siria contro le milizie curde malgrado il parere contrario degli Stati Uniti, alleati con queste ultime. Stesso discorso vale per l’acquisto del sistema anti-aereo russo S-400. Anche di fronte a minacce e sanzioni, inclusa l’esclusione dal progetto dei caccia F-35, Erdogan si era rifiutato di cancellare il contratto sottoscritto con Mosca.

Per quanto perentorie siano state le dichiarazioni di Erdogan, è probabile che ci saranno ulteriori sviluppi della vicenda di Svezia e Finlandia. Il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, durante un incontro con i vertici militari nella giornata di lunedì e dopo una condanna esplicita dei fatti accaduti in Svezia, ha lasciato aperto un qualche spiraglio, invitando Stoccolma e Helsinki a mettere in pratica quanto promesso e a impedire ulteriori iniziative “disgustose e spregevoli” come quelle dello scorso fine settimana.

Da Helsinki, intanto, è arrivata martedì la notizia che il governo finlandese potrebbe richiedere la ratifica definitiva dell’adesione alla NATO senza attendere i vicini svedesi. La Finlandia aveva in precedenza sempre sostenuto di volere procedere in parallelo alla Svezia per mettere fine al proprio status di neutralità. A ipotizzare una possibile svolta è stato martedì il ministro degli Esteri, Pekka Haavisto, in un’intervista televisiva. In un successivo intervento in parlamento, tuttavia, ha rettificato in parte le sue parole, confermando che la decisione di entrare nell’Alleanza contemporaneamente alla Svezia non è cambiata.

Il tira e molla tra Svezia e Turchia ha ad ogni modo evidenziato come il processo di allargamento “orizzontale” della NATO si scontri ormai con una realtà complessa e contraddittoria che rende sempre più difficile conciliare interessi divergenti. Il miraggio di un sistema di valori e di obiettivi comuni a tutti i membri si sta sgretolando per effetto sia del conflitto in Ucraina sia delle tendenze multipolari in atto sullo scacchiere euro-asiatico, di cui appunto la Turchia è uno dei protagonisti assoluti.

Queste dinamiche non sono per nulla nuove, come dimostra sempre il caso turco e in parte quello dell’Ungheria, ma le circostanze relative ai due paesi scandinavi hanno fatto emergere tutte le differenze che caratterizzano un’alleanza la cui compattezza è ormai soltanto di facciata. Un altro risvolto del caso svedese sembra confermare questo giudizio sul Patto Atlantico. Stoccolma e Washington hanno cioè avviato da poco un negoziato per stipulare una partnership militare formale al di là dell’adesione della Svezia alla NATO, quasi a rimarcare le difficoltà crescenti nell’utilizzare l’Alleanza come uno strumento efficace per la proiezione degli interessi strategici degli Stati Uniti.

L’elemento di rottura del fronte NATO in relazione alla Turchia è l’attrazione che esercita su Ankara il nuovo concetto multipolare direttamente collegabile all’avanzata dei piani di integrazione economica, commerciale e infrastrutturale, ma anche e sempre più politica e militare, che vedono sì come forze trainanti Cina e Russia, ma che offrono opportunità senza precedenti anche per potenze con ambizioni regionali. Non solo la Turchia, ma anche l’Iran, gli Emirati Arabi o la stessa Arabia Saudita.

Se lo scontro aperto dentro alla NATO è esploso con il caso turco, è improbabile che si tratti di un fenomeno per così dire periferico. È la stessa guerra in Ucraina e l’ossessione anti-russa che finirà per ampliare le distanze dentro l’Alleanza, sia tra i membri europei e gli Stati Uniti sia all’interno dei paesi del vecchio continente. In questo quadro, l’avvicinarsi della sconfitta militare in Ucraina e l’eventuale naufragio della candidatura svedese minacciano di aggravare le divisioni nella NATO fino, nell’ipotesi più estrema, ad accelerarne la definitiva implosione.

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