Il devastante sisma che ha colpito Turchia e Siria nelle prime ore di lunedì ha avuto e avrà conseguenze più gravi molto probabilmente su quest’ultimo paese per via delle drammatiche condizioni economico-sociali in cui l’ha costretto oltre un decennio di guerra alimentata dagli Stati Uniti e dai loro alleati. L’attenzione dell’Occidente immediatamente dopo il terremoto si è però concentrata in buona parte sulla Turchia, mentre la Siria rischia di restare senza gli aiuti necessari a causa sia delle sanzioni imposte unilateralmente da Washington sia dei calcoli politici di quei paesi che manovrano tuttora per il cambio di regime a Damasco.

Le vittime accertate in Siria ammontano finora a circa 1.700 con una distribuzione quasi uguale tra le aree controllate dal governo legittimo e quelle nelle mani dei “ribelli”. L’approccio al sisma in Siria da parte dei paesi occidentali e dei rispettivi leader politici è andata per lo più dall’espressione di dolore e cordoglio per la popolazione civile colpita, con talvolta generiche promesse di aiuti tramite organizzazioni non governative, al totale disinteresse e alla scelta di citare soltanto la Turchia nelle varie dichiarazioni ufficiali emesse in questi giorni. Tra gli altri, anche il presidente italiano Mattarella, nel comunicato pubblicato dall’account Twitter del Quirinale, si è vergognosamente rivolto soltanto alla situazione turca.

 

L’esempio più significativo è stato ad ogni modo quello del dipartimento di Stato americano. Il portavoce, Ned Price, ha fatto sapere lunedì che, nelle pratiche relative all’assistenza post-sisma, Washington avrà come partner, da un lato, il governo turco e, per quanto riguarda la Siria, “le ONG sul campo che stanno garantendo supporto umanitario”. In sostanza, nonostante la tragedia di proporzioni colossali, gli Stati Uniti continueranno a non riconoscere la legittimità del governo siriano e a mantenere le pesantissime sanzioni economiche che già prima del terremoto stavano strangolando il paese mediorientale.

La posizione americana è condivisa in larga misura dall’Europa. Le conseguenze di ciò saranno ancora peggiori per la Siria, visto che le misure punitive applicate a partire dal 2011 dagli USA e intensificate dal 2019 hanno creato una situazione interna che rende di per sé già molto difficili le operazioni di soccorso. La Siria si ritrova cioè con carenze gravissime di mezzi, strumentazione tecnica, personale e dispositivi medici a causa del brutale regime sanzionatorio imposto da Washington per rovesciare il governo di Assad.

Le vicende della guerra in corso da più di un decennio hanno determinato così una manifestazione di solidarietà ancora una volta estremamente selettiva da parte dell’Occidente, dove a prevalere sono come sempre i calcoli strategici e gli interessi politici ed economici. In alcuni casi, come per il numero uno della politica estera UE Josep Borrell, è stata comunque ipotizzata la messa a disposizione di aiuti concreti, ma solo nel caso la Siria dovesse farne richiesta. In realtà, alla luce della tragedia, Damasco aveva subito fatto appello alla comunità internazionale per ottenere qualsiasi forma di aiuto possibile.

L’elenco dei paesi che invece si sono già adoperati per assicurare una qualche assistenza immediata alla Siria sono anche una prova ulteriore della polarizzazione che prevale oggi a livello globale. I governi mobilitatisi per la popolazione siriana non sono infatti solo alleati di Damasco – come Russia o Iran – ma anche attori coinvolti in un modo o nell’altro nelle dinamiche multipolari riconducibili alla formula del “Sud Globale”: Cina, India, Algeria, Cuba, Emirati Arabi e Libano.

L’impatto che la situazione pregressa e il comportamento dell’Occidente hanno sulla Siria renderanno dunque molto più difficoltosi i soccorsi, per non parlare della ricostruzione, con la conseguenza pressoché certa di far salire vertiginosamente il numero delle vittime del sisma nei prossimi giorni. Oltre alle sanzioni, vanno ricordati anche i bombardamenti che Israele conduce con regolarità e impunemente contro le infrastrutture siriane. Nel caso specifico, le condizioni dell’aeroporto di Damasco, in fase di riparazione dopo un’incursione dello stato ebraico a inizio gennaio, sono tali da rendere complicato l’arrivo di velivoli con aiuti umanitari dall’estero.

Viste le prospettive decisamente cupe, da più parti sono arrivati in questi giorni appelli all’amministrazione Biden per sospendere o cancellare definitivamente le sanzioni draconiane che pesano sulla Siria. Tra le voci più autorevoli spicca quella del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente che, in un comunicato, ha chiesto l’immediata rimozione delle sanzioni per consentire l’afflusso dei beni di prima necessità alle popolazioni colpite dal terremoto in Siria.

Per comprendere anche solo superficialmente la situazione su cui si è abbattuta la tragedia del sisma di questa settimana è possibile citare il rapporto della relatrice speciale ONU sulle Sanzioni e i Diritti Umani, Alena Douhan, seguito alla sua visita in Siria tra la fine di ottobre e i primi di novembre. Quest’ultima ha disegnato un quadro sconvolgente del paese, con il 90% della popolazione costretta a vivere al di sotto della soglia ufficiale di povertà, con accesso limitato a cibo, acqua, elettricità, assistenza sanitaria, carburanti, riscaldamento e alloggio.

Più della metà delle infrastrutture vitali del paese risultano distrutte o seriamente danneggiate, ha spiegato la relatrice, mentre “l’imposizione di sanzioni unilaterali ai settori economici chiave, inclusi quello petrolifero, del gas, dell’energia elettrica, del commercio e delle costruzioni, hanno fatto crollare il PIL e compromesso gli sforzi per la ripresa economica e la ricostruzione”. Ancora, le restrizioni ai pagamenti e ai movimenti finanziari hanno decimato le importazioni provocando “gravi carenze di farmaci e strumenti medici”, fondamentali soprattutto per coloro che soffrono di malattie croniche e rare.

Le osservazioni di Alena Douhan suonano doppiamente allarmanti se si considerano le condizioni delle aree colpite dal terremoto. Basti pensare anche alla totale inadeguatezza della rete idrica, per uso domestico e agricolo, a causa della mancanza di ricambi e attrezzature in conseguenza delle sanzioni. La relatrice ONU aveva perciò chiesto la cancellazione delle sanzioni unilaterali, definite “illegali”, dal momento che “nessun fine… giustifica la violazione dei più fondamentali diritti umani”.

È precisamente l’ostacolo alla ricostruzione della Siria lo scopo primario delle sanzioni più pesanti imposte a partire dal 2019 dagli Stati Uniti. Già nel 2011 l’amministrazione Obama aveva intensificato le misure punitive adottate nel 2004 contro un paese incluso nel famigerato “asse del male” da George W. Bush. Il fallimento delle mire americane contro il governo di Assad, in primo luogo grazie all’intervento della Russia, avevano determinato appunto il moltiplicarsi delle sanzioni, fino alla decisione di Trump di introdurre nel 2019 il cosiddetto “Caesar Act”.

Questo pacchetto di provvedimenti punitivi dà al governo di Washington la possibilità di colpire qualunque entità intrattenga rapporti commerciali o di altro genere con la Siria, rendendo quasi impossibile la partecipazione di soggetti stranieri a progetti energetici, edilizi, infrastrutturali, così come la fornitura a questo paese di beni al di fuori di quelli di primissima necessità. In linea teorica, il “Caesar Act” dovrebbe esentare dalle sanzioni aiuti umanitari, cibo e medicinali, ma il timore di incorrere nella furia sanzionatoria americana ha agito quasi sempre da deterrente per le aziende occidentali e, in assenza di un’inversione di rotta parte degli USA, la stessa dinamica si ripresenterà con effetti anche peggiori nelle vicende post-sisma.

Lo scorso anno, come se non bastasse, il Congresso americano ha inoltre approvato un nuovo provvedimento contro la Siria, il “Captagon Act”, dal nome della droga anfetaminica che da qualche tempo si è diffusa in Medio Oriente. L’origine di questa sostanza va collegata agli ambienti fondamentalisti che, con l’appoggio più o meno esplicito dell’Occidente e dei regimi arabi sunniti, combattono o hanno combattuto contro il governo di Damasco. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno ribaltato la realtà dei fatti attribuendo il proliferare del Captagon alla Siria. Ciò ha fornito le basi per un nuovo pacchetto di sanzioni che punta letteralmente a distruggere l’industria farmaceutica siriana.

L’amministrazione Biden non intende quindi allentare la presa su Assad e la Siria nemmeno di fronte alle immagini terrificanti provenienti in questi giorni dalle aree colpite dal sisma. Il Dipartimento di Stato insiste nel sostenere di non avere alcun interlocutore a Damasco, prospettando difficoltà insormontabili per i soccorsi e l’assistenza ai sopravvissuti del terremoto. L’interesse americano è rivolto piuttosto altrove, come testimonia la notizia, giunta poco prima delle scosse di lunedì, dei piani di Washington per rafforzare la presenza militare illegale in territorio siriano, ufficialmente in risposta a un molto sospetto aumento delle attività dello Stato Islamico (ISIS).

L’occupazione di una parte del territorio siriano da parte americana in collaborazione con le milizie curde rappresenta un altro elemento distruttivo per il paese mediorientale, anch’esso tristemente in grado di complicare l’uscita dalla crisi aggravata dai fatti di questa settimana. I circa mille soldati USA, più un numero imprecisato di mercenari, si appropria infatti regolarmente delle risorse petrolifere e alimentari della Siria nella porzione di territorio più ricca di entrambi i beni di tutto il paese, sottraendoli al legittimo governo e alla popolazione.

Se l’interesse degli Stati Uniti per la Siria si sta intensificando non è dunque per la crisi che essi stessi hanno provocato con la guerra né tantomeno per le conseguenze del terremoto di lunedì. La conferma della linea dura anche dopo la tragedia che ha colpito quest’area del Medio Oriente è dettata nell’immediato dalla possibile riconciliazione tra Assad e Erdogan con la mediazione russa. Una prospettiva, quest’ultima, che è sembrata concretizzarsi negli ultimi mesi e che avrebbe la capacità di dare un impulso forse decisivo alla risoluzione del lunghissimo e sanguinoso conflitto.

Secondo alcuni commentatori, il riavvicinamento tra i leader di Ankara e Damasco potrebbe addirittura essere favorito e accelerato dalle conseguenze del sisma. Che ciò accada o meno dipenderà da vari fattori, non da ultimo i calcoli elettorali di Erdogan in vista del voto di maggio e la gestione dell’emergenza nelle prossime settimane. Quel che è certo fin da ora è che il governo americano farà di tutto per impedire qualsiasi progresso verso la stabilizzazione della Siria, inclusa la “riattivazione” delle cellule dell’ISIS e il rifiuto a considerare anche solo un minimo allentamento delle sanzioni per favorire i soccorsi e alleviare la situazione di un paese messo ulteriormente in ginocchio dal terremoto di lunedì.

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