di Sara Nicoli

Forse ha ragione la senatrice di Rifondazione, Rina Gagliardi, che dalle colonne di Liberazione ha lanciato un j'accuse senza sconti: la mina vagante all'interno dell'Unione non sono i senatori con il mal di pancia per il voto sull'Afghanistan, né tantomeno Fassino e la sua voglia di socialismo europeo e di Pse. La mina si chiama Antonio Di Pietro e lo scoglio è l'indulto. Oggi il provvedimento di sconto di pena, scritto da Mastella (e già approvato dalla commissione Giustizia) approda alla Camera. E mentre si registra un assenso sostanzialmente plenario su un testo che prevede tre anni di abbuono per tutti i reati, ad esclusione di quelli per terrorismo, mafia, violenza sessuale e pedofilia, l'ex Guardasigilli del primo governo Prodi, oggi sulla poltrona di quello delle Infrastrutture, evidentemente scomoda, scalpita e dice "no". L'indulto non gli piace. Poco importa se serve per svuotare carceri al limite del collasso, dove i detenuti vivono in condizioni subumane a causa del sovraffollamento di strutture obsolete e dove il suicidio è spesso considerato come l'unica via d'uscita plausibile. Dopo anni di ripensamenti e di polemiche, finalmente si è arrivati ad un punto di svolta sostanziale: l'indulto è solo un'ora d'aria per le strutture carcerarie italiane, un modo per far uscire chi, in fondo, ha già scontato gran parte della sua pena, perché c'è un'emergenza umanitaria che supera di gran lunga qualsiasi necessità di pagamento del debito nei confronti della società e di cui la politica ha deciso di farsi carico. Solo che c'è chi, ancora, non lo capisce. E Di Pietro sembra uno di questi. La questione umanitaria non sembra infatti essere al centro dei suoi pensieri, lo è molto di più l'idea di vedere fuori dalle patrie galere quelli che lui stesso ha provveduto a consegnare alla giustizia da magistrato. Una questione personale, si direbbe, a difesa dell'orgoglio maturato nella stagione in cui è stato l'uomo che ha "giustiziato" il sistema. I tempi sono cambiati, le carceri scoppiano, i detenuti muoiono. L'emergenza, oggi, è un'altra.

Di Pietro contesta alla maggioranza di aver inserito all'interno dell'articolato anche i reati finanziari, societari e contro la pubblica amministrazione. L'ex magistrato molisano intravede un insopportabile colpo di spugna, immorale e inaccettabile, a quella che è stata la punta di diamante della sua carriera, Tangentopoli e i suoi derivati. Per non parlare poi del fatto che il primo a beneficiare dell'indulto sarebbe uno dei suoi nemici giurati di sempre, quel Cesare Previti che potrebbe uscire dai domiciliari subito. I suoi sei anni di condanna per la sentenza Imi-Sir diventerebbero tre. E in virtù di un'altra legge, la Simeoni Saraceni, potrebbe essere affidato ai servizi sociali e, insomma, cavarsela con poco: un insulto, insomma.

Inaccettabile. E lo scontro si annuncia al calor bianco. Stavolta non si tratta di una questione di numeri perché la maggioranza c'è e anche l'opposizione voterà a favore: non ci si scorda degli amici finiti in disgrazia, la questione delle carceri sovraffollate, per un partito come Forza Italia, è un aspetto secondario. Avanti, dunque, senza ripensamenti. Quello che minaccia di Pietro, però, non è una semplice dimostrazione di forza. E' anche altro. Se non lo staranno a sentire - e ci sono tutti i presupposti perché questo avvenga - minaccia di uscire dal governo e dare l'appoggio esterno, senza far mancare in aula un po' di ostruzionismo che non guasta mai quando si vogliono catturare i riflettori su di sé per segnalare la propria esistenza in vita. I suoi fedelissimi dell'Italia dei Valori stanno lavorando ad una mole di più di 300 emendamenti, tanto per rallentare l'iter quel giusto necessario ad impedire che prima di Ferragosto almeno il 20% dei detenuti italiani possano stare fuori dalle patrie galere. E' una questione ideologica, più che un fatto morale. E la dice lunga come Di Pietro ha chiamato questa personalissima battaglia intrisa di un giustizialismo allo stato più puro: "contro l'intesa con il diavolo". Parole da inquisitore, non da uomo di legge, figurarsi da uomo politico.

In coscienza non si può non considerare che un provvedimento con l'indulto, così formulato da Mastella, possa davvero costituire un dramma per un uomo come Di Pietro che ha fatto della giustizia dura e della legge che non ammette clemenza le proprie regole morali di riferimento. Quello che, invece, non si può comprendere, è che Di Pietro non sia ancora riuscito a togliersi la toga dalle spalle per infilarsi i panni di uomo politico e di governo a tutto tondo. Tra la certezza del diritto e quella della dignità umana di uomini reclusi, talvolta uno sull'altro come bestie, un uomo di governo dovrebbe senz'altro scegliere la seconda, anche se questo gli provoca inevitabilmente di venire a compromessi con la propria coscienza. Governare, insomma, non significa approvare sempre ciò che è meglio per se stessi, altrimenti sarebbero tutti come Berlusconi.

Ma Di Pietro non ce la fa, sembra più forte di lui. E come sempre, quando qualcosa va contro il suo imperativo morale di riferimento, si dibatte minacciando sfracelli oppure invocando la lesa maestà per una forza politica, la sua dell'Italia dei Valori, che con 25 parlamentari ha fatto vincere le elezioni al centrosinistra. Stavolta, però, Mastella non ha alcuna intenzione di starlo a sentire, al punto da averlo apostrofrato con un epiteto, "censore", che certo non promette mediazioni in calcio d'angolo. Cosa farà, alla fine, Di Pietro, sarà cronaca dei prossimi giorni. In ogni modo questo suo opporsi a ragioni umanitarie, per orgoglio personale, ha fatto riflettere sull'indole di una persona che ha sempre letto i codici solo in funzione del massimo della pena. E mai, a nostro giudizio, per comprendere e capire che, come Costituzione insegna, la giustizia passa anche attraverso l'umanità e la clemenza.

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