di Antonio Rei

Il premier Enrico Letta inaugura una sua personale rivisitazione della "terza via". In tempi di larghe intese, non si tratta più di trovare un'alternativa tra liberismo e socialismo, o tra keynesianismo e neoliberismo. I due poli fra cui il presidente del Consiglio si destreggia, purtroppo con scarsa agilità, sono altri: rigorismo e antirigorismo. La settimana scorsa, intervenendo all'assemblea di Federcasse, Letta ha spiegato che il suo Governo deve fronteggiare due categorie di avversari: "Chi vuole più spesa e deficit e gli ayatollah del rigore". Il nostro Paese "è stretto fra questi due fronti, e non è facile: abbiamo bisogno di alleati in Italia e in Europa".

Insomma, alcuni ritengono che "il rigore non sia mai abbastanza, ma di troppo rigore l'Europa e le nostre imprese finiranno per morire"; gli altri, gli spendaccioni, non tengono conto di quanto sia importante la stabilità della finanza pubblica, anche perché "l'Italia continuerà ad essere vulnerabile finché non sarà arrivata almeno a un tasso d’interesse del 3% sui bond decennali (attualmente poco sopra il 4%, ndr)".

Il discorso denota uno zuccheroso equilibrismo democristiano, apparentemente difficile da collocare in una qualsiasi delle teorie economiche contemporanee. In realtà, quello che più conta sono le contraddizioni che contiene. Partiamo dalla fine, analizzando l'unico dato concreto fornito dal Premier, ovvero quella soglia psicologica per i rendimenti dei Btp decennali, fissata al 3%.

Forse a Palazzo Chigi non circolano molte tabelle, perché tassi d'interesse simili su quei bond non si sono mai visti, nemmeno quando il Pil era ancora in crescita. In base agli andamenti storici, un valore vicino a quello individuato dal capo del governo è il minimo storico del 3,35%, che risale al 30 settembre 2005.

Il target evocato da Letta è quindi del tutto inverosimile, oltre che inutile. L'aspetto più grave, tuttavia, è un altro. A prescindere dai numeri, il Presidente del Consiglio, di fatto, ha ribadito ancora una volta la vulgata che pone l'economia reale in posizione subordinata rispetto alle esigenze della finanza. "Andrò a Berlino a cercare di parlare all'opinione pubblica tedesca - ha continuato Letta - per spiegare perché l'Europa deve essere solidale. L'Italia ha le carte in regola perché la sua voce sia ascoltata. C'è bisogno di politiche per la crescita. Noi lo possiamo dire perché abbiamo i conti in ordine".

Il punto è proprio questo: da una parte il Premier si scaglia contro i danni prodotti dall'austerity, dall'altra si vanta di aver riportato il deficit italiano al 3% del Pil. Prima sostiene che la priorità sia riattivare una politica europea volta alla crescita, poi rimarca la necessità di tenere "i conti in ordine" e addirittura di lavorare per ridurre ulteriormente i tassi sui Btp. Quando si puntano allo stesso tempo due obiettivi così divergenti è inevitabile mancare entrambi i bersagli.

Bruxelles continua a lamentare un'azione insufficiente del nostro Governo sui conti pubblici, al punto che una decina di giorni fa la Commissione europea ci ha negato il diritto di usufruire della clausola sugli investimenti produttivi per la nostra politica deludente sul fronte del debito (salvo poi lasciare aperto uno spiraglio in vista di privatizzazioni e spending review), e anche dall'Ocse sono arrivate critiche in questo senso.

Intanto, il nostro Paese ha la certezza di un futuro desolante: nel 2014, è vero, usciremo dalla recessione, ma ad attenderci non c'è la crescita, bensì una sostanziale stagnazione, con il numero dei disoccupati destinato addirittura ad aumentare. Tutti mali considerati necessari e accettabili pur di avere "i conti in ordine", che poi in ordine non sono.

E' una storia già scritta, e non c'è lieto fine. Letta simula una qualche forma di ribellione al diktat finanziario europeo, ma nei fatti obbedisce senza nemmeno ipotizzare una protesta reale. In linea teorica, gli uffici di Bruxelles non sono fatti solo per ricevere ordini e reprimende.

Si potrebbe anche litigare, alzare di qualche decibel il tono della voce. Invece di andare in Germania a supplicare maggiore "solidarietà", il Presidente del Consiglio italiano potrebbe almeno provare a mettere sul tavolo l'unica soluzione possibile, ovvero la revisione dei trattati europei, a cominciare dai parametri finanziari stabiliti a Maastricht nell'ormai lontanissimo 1992.

Troveremmo una schiera di alleati su questo fronte, in primo luogo fra i Paesi in cui la politica a trazione tedesca ha creato vere e proprie mattanze sociali (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda). La nostra voce sarebbe ulteriormente rafforzata dal fatto che il prossimo primo luglio inizierà nel Consiglio dell'Unione europea il semestre di presidenza italiana. Purtroppo, il nostro Premier - che sostiene di avere "big balls" - non ha sufficiente carisma, né forza politica, né indipendenza dalle lobby per avventurarsi nell'unica battaglia che avrebbe senso combattere. Ammesso che ne abbia mai avuto l'interesse.

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