La riforma costituzionale per il taglio dei parlamentari rivela la natura più profonda del populismo, che consiste nell’affrontare problemi complessi con risposte semplici e goffe. In Italia si parla da decenni della possibilità di ridurre il numero di deputati e senatori, ma pensare di risolvere la faccenda con un colpo d’ascia secco - senza altri correttivi istituzionali e senza nemmeno rivedere in anticipo i regolamenti di Montecitorio e di Palazzo Madama - è semplicemente puerile. In senso letterale: è proprio la soluzione che potrebbe dare un bambino, quando invece servirebbero costituzionalisti esperti.

Il problema principale riguarda la rappresentanza territoriale e politica. Va molto di moda confrontare il rapporto parlamentari/abitanti che abbiamo in Italia a quello che si registra negli altri Paesi europei, ma è un esercizio insensato. In primo luogo perché talvolta l’impianto istituzionale di base è diverso (in Francia, ad esempio, è semipresidenziale), e poi perché da noi Camera e Senato hanno funzioni identiche, mentre altrove non è quasi mai così, con le camere alte che spesso non sono nemmeno elettive.

Il guaio più serio di questa riforma è che riduce la rappresentanza in modo differenziato sui territori, penalizzando quelli meno abitati. Nel complesso, i seggi alla Camera diminuiranno da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200. In media, ogni Regione perderà il 36,5% dei senatori, ma le oscillazioni sono enormi: secondo i calcoli del Manifesto, si va dal -33,3% della Toscana (da 18 a 12 senatori) al -42,9% di Abruzzo e Friuli Venezia Giulia (da 7 a 4), fino al -57,1% di Umbria e Basilicata (da 7 a 3). Il Trentino Alto Adige, invece, se la caverà con un -14,3% grazie al fatto che le due province autonome hanno diritto a un numero uguale di senatori.

Quanto alla rappresentanza politica, è evidente che meno candidati si eleggono sui territori, più diminuiscono le possibilità dei partiti minori di entrare in Parlamento, a prescindere dalla soglia di sbarramento.

Veniamo così alla legge elettorale. Posti di fronte al problema della perdita di rappresentanza, alcuni politici affermano che l’equilibrio sarà ristabilito con una riforma proporzionale. Ma è mai possibile che la rappresentatività del Parlamento sia affidata a una legge ordinaria, modificabile con facilità a ogni cambio di maggioranza? Non scherziamo.

Piuttosto - al di là del giudizio di merito - avevano un valore molto maggiore le altre riforme istituzionali che Pd e Leu volevano affiancare al taglio dei parlamentari: l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica (che altrimenti diventerebbero molto più decisivi) e soprattutto l’elezione del Senato su base circoscrizionale anziché regionale. Peccato che di tutto ciò si sia perso traccia e che quello che rimane sia un semplice colpo di machete.

La propaganda pro-Sì afferma poi che con il taglio dei rappresentanti il Parlamento diventerà più efficiente. Al contrario, proprio perché nessuno si è posto il problema di correggere i regolamenti delle due Camere prima della riforma, all’inizio il funzionamento sarà ben più caotico. Ma non è nemmeno questo il punto: l’efficienza del Parlamento dipende dalla forza della maggioranza, non certo dal numero dei parlamentari. Se davvero l’obiettivo fosse la governabilità, allora in teoria dovremmo creare un sistema monocamerale e maggioritario, che in Italia sarebbe nefasto per altre ragioni (vedi la riforma Renzi) e che comunque è l’esatto contrario di quello che stiamo facendo. Quindi anche l’argomento dell’efficienza è pretestuoso.

Infine, i soldi. La vera ragion d’essere di questa riforma è la propaganda: il principale argomento dei populisti riguarda infatti il taglio ai costi della politica, ma i numeri di cui si parla sui volantini sono gonfiati ad arte. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli, la riforma permetterà di risparmiare 57 milioni l’anno, cioè lo 0,007% della spesa pubblica italiana, pari a 95 centesimi l’anno per abitante. Meno di un caffè.

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