La guerra in Ucraina imporrà al governo italiano (e non solo) di rimettere mano al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il motivo principale riguarda la transizione energetica, uno dei pilastri su cui si fondano i Pnrr di tutti i Paesi. Alla luce dei nuovi rapporti con Mosca, Bruxelles sta mettendo a punto una strategia per ridurre la dipendenza europea dal gas e dal petrolio della Russia. Questo obiettivo avrà la precedenza rispetto alla tutela dell’ambiente e in alcuni casi potrebbe giustificare il ritorno temporaneo al carbone. È chiaro quindi che i Pnrr dovranno essere modificati, ricalibrando priorità, politiche e allocazione delle risorse.

 

È questione di matematica: con le quotazioni di energia e materie prime ai massimi storici, i costi previsti per l’attuazione dei Piani schizzano alle stelle, rendendo insufficienti i fondi stanziati. Le opere programmate non si potranno quindi realizzare nei tempi previsti, a meno di un cospicuo aumento dei soldi a disposizione, che però spingerebbe l’indebitamento pubblico europeo (e quello italiano in particolare) oltre i livelli di guardia.

Intendiamoci, non c’è ragione di dubitare che la transizione energetica rimarrà fondamentale in tutti i Pnrr, ma il punto è un altro, e cioè che le misure da attuare per raggiungere lo scopo dovranno essere riviste. È probabile, ad esempio, che si sceglierà di accelerare proprio su quei punti che garantiscono un più rapido affrancamento dall’energia russa: investimenti in rigassificatori per poter usare il gas liquefatto (soprattutto quello americano, particolarmente costoso); costruzione di nuove reti di trasporto per l’energia; sviluppo di impianti per le rinnovabili e ricerca su fonti alternative come l’idrogeno.

Non solo. La guerra mette in pericolo anche altre riforme del Pnrr che, in apparenza, nulla hanno a che fare con la Russia. L’aumento delle difficoltà per imprese e famiglie, infatti, indebolisce la compattezza e la determinazione della maggioranza parlamentare, in cui ogni forza politica si muove per conto proprio, orientata dalla bussola elettorale. E così riforme come quelle del catasto, del fisco e della concorrenza, che prima della guerra erano difficili, rischiano ora di rivelarsi impossibili.

Su un solo argomento il conflitto ucraino sembra aver ricompattato il Parlamento intero. La settimana scorsa la Camera, come un sol uomo, ha approvato un ordine del giorno che obbliga il governo ad “avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del Pil”.

Ora, su questo argomento occorre fare un po’ di chiarezza. Insieme agli altri membri della Nato, l’Italia si è impegnata da tempo ad aumentare le spese militari fino al 2% del Pil entro il 2024. Secondo l’ultimo bilancio previsionale dello Stato, nel 2021 gli stanziamenti italiani per la difesa si sono fermati a 24,4 miliardi di euro, pari all’1,37% del Pil. Quest’anno l’asticella si è alzata leggermente, ma l’obiettivo Nato è ancora lontano.

“Nel contesto internazionale - si legge in uno studio dell’Osservatorio conti pubblici italiani - nel 2020 l’Italia si collocava al 102esimo posto (su 147 paesi considerati) per spesa militare sul Pil, sotto tutti i membri del G7 tranne il Giappone, e sotto la mediana Ue (1,6%) e Nato (1,8%)”. Attenzione, quindi, a parlare dell’Italia come di un Paese guerrafondaio.

Allo stesso tempo, però, l’osservatorio Milex fa notare che, con l’aumento messo in cantiere, la spesa militare italiana passerà da 25 a 38 miliardi di euro l’anno, ovvero da 68 a 104 milioni di euro al giorno.

Un incremento che appare sproporzionato e irragionevole, soprattutto considerando che, in parallelo, la spesa sanitaria è destinata a calare: dai 129,4 miliardi stanziati per il 2021 si scenderà a 125,7 per quest’anno, a 123,6 per il 2023 e a 124,4 per il 2024.

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