di Agnese Licata

Duecentosettantadue pagine per dare un significato a 425 milioni di lire. Per spiegare come una cifra del genere sia finita, da un giorno all’altro, tra le mani di un giudice della Repubblica. Per ribadire che in quel 1991 la corruzione all’interno di “un certo ambiente romano” era cosa frequente, tanto da delineare un “allarmante quadro d’insieme”, che coinvolge giudici, avvocati, imprenditori. Le pagine sono quelle depositate venerdì dalla terza sezione della corte d’Appello di Milano e rappresentano le motivazioni per la sentenza del “lodo Mondadori”, risalente a un mese fa. Il giudice - ormai ex - è Vittorio Metta, colui che con la sua decisione riconsegnò alla Fininvest di Berlusconi il controllo della Mondatori, ai danni della Cir di De Benedetti. Gli avvocati sono l’ancora deputato di Forza Italia Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora. Tutti già condannati in via definitiva per un’altra sentenza, per un’altra corruzione in atti giudiziari, quella della vicenda Imi-Sir. Sullo sfondo, “l’enorme interesse della Fininvest” e del suo patron Silvio Berlusconi, uscito definitivamente di scena nel 2001, grazie all’inspiegabile attribuzione di un reato meno grave rispetto agli altri imputati - corruzione semplice - e alla conseguente prescrizione. Ma andiamo con ordine. Il 23 febbraio scorso i giudici milanesi della corte d’Appello decidono di accogliere tutte le richieste del pubblico ministero: due anni e nove mesi per Vittorio Metta, un anno e mezzo sia per Cesare Previti sia per Attilio Pacifico e un anno e sei mesi per Giovanni Acampora. Condanne che vanno a sommarsi a quelle, ben più pesanti, dell’Imi-Sir. Si tratta del secondo appello. Durante il primo erano stati tutti assolti, ma la Corte Costituzionale aveva annullato tutto e rinviato a nuovo processo. Un ping-pong che potrebbe non essere ancora finito, considerando l’intenzione di Previti&co d’impugnare la sentenza.
La lunghezza e l’incertezza di questo processo si deve in gran parte alla mancanza di una prova materiale che dimostri il passaggio di denaro tra gli avvocati e il giudice Metta. Quei 425 milioni di vecchie lire che Metta consegna come caparra per l’acquisto di una casa a Roma sembrano piovuti dal cielo. Il giudice non li ha mai denunciati, come la legge lo obbligherebbe a fare. Al processo si difende parlando di un’eredità, ma quei soldi non risultano né versati né prelevati dai suoi conti bancari. A insospettire è anche la tempistica. Sono trascorsi appena una ventina di giorni da quando Vittorio Metta - allora magistrato alla corte d’Appello di Roma - ha depositato la sentenza sulle contese azioni Formenton che garantiscono il controllo della Mondatori.

Nel giugno del 1990 il lodo arbitrale sul contratto sottoscritto tra la Cir di De Benedetti e Formenton (con cui si prometteva la vendita della quota azionaria) aveva dato ragione a De Benedetti e dichiarato nulla la vendita, decisa successivamente, delle stesse azioni alla Fininvest di Berlusconi. La questione viene però impugnata di fronte alla corte d’Appello che, affermando l’esistenza di una violazione nell’accordo Cir-Formenton, restituisce a Berlusconi la Mondadori.
È proprio per assicurare quest’esito che Berlusconi avrebbe imboccato la sicura via della corruzione. È per questo che, come si legge nelle recenti motivazioni, “alla fine, più di 400 milioni di lire in contanti arrivano al giudice (Vittorio Metta, ndr), dopo movimentazioni bancarie estere anomale e prive di qualsiasi supporto documentale, a partire dai conti riconducibili al gruppo imprenditoriale”.

I movimenti partono da All Iberian, un conto estero facente capo alla Fininvest. È da qui che parte un bonifico di oltre 3 miliardi di lire a favore di uno dei conti di Previti. Pochi giorni dopo, l’esatta metà di questa somma viene dirottata verso di un altro conto, questa volta di Acampora. A questo punto, una parte dei soldi - 425 milioni - tornano indietro a Previti che, infine, li gira a Pacifico. Il giro è arrivato quasi a destinazione. Secondo quanto scritto dai giudici milanesi, sarebbe stato proprio Pacifico a consegnare il contante a Metta. Del resto, si è dato molto da fare. Nonostante la sua nota e costante lentezza nella stesura delle sentenze (con una media di due-tre mesi), per dipanare una vicenda intricata come il “lodo Mondadori”, a Vittorio Metta basta un giorno soltanto. Si legge infatti nella motivazione: “La minuta di sentenza (ben 167 pagine), secondo il registro interno della cancelleria”, è già presente “il 15 gennaio, giorno successivo alla camera di consiglio alla quale Metta” si era “presentato senza alcuna bozza”.

Le motivazioni rigettano, una per una, anche le dichiarazioni con cui Cesare Previti ha tentato di giustificare i movimenti attorno i suoi conti bancari. Quel bonifico da oltre 3 miliardi di lire è davvero troppo pesante per poter essere considerato una parcella per le sue attività di avvocato svolte a favore di Berlusconi su complesse vicende francesi e spagnole, anche perché “tutte iniziate dopo che l’ingente cifra era già stata accreditata”.

In tutto questo rimane un solo, ingombrante, paradosso, se s’inserisce quest’ultima sentenza all’interno della lunga serie di decisioni e processi che riguardano la vicenda Imi-Sir-Lodo Mondadori. È il paradosso del burattino senza burattinaio. È il paradosso di un gruppo di avvocati condannati per essere stati intermediari nella corruzione di giudici mentre il loro ricco “burattinaio”, colui a cui i benefici di queste corruzioni indiscutibilmente sono andati, beneficia delle attenuanti generiche e rimane, per la giustizia italiana, del tutto innocente.

C’è la motivazione di una sentenza che palesemente individua in Silvio Berlusconi e nella Fininvest il motore di alcuni movimenti bancari destinati alla corruzione di un giudice, eppure proprio lui, proprio il burattinaio, viene considerato meno colpevole del gruppo di avvocati che si muove per suo nome e conto. Paradossi e ingiustizie a cui, purtroppo, si rischia di abituars

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