Il lavoro della maggioranza sull’autonomia differenziata “può finalmente entrare nel vivo”, ha detto la settimana scorsa Roberto Calderoli, ministro per gli Affari Regionali, assicurando di non voler “spaccare il Paese” con il trasferimento di funzioni e risorse alle Regioni del Nord. E su questo, forse, ha ragione: il Paese è già spaccato, perciò questo disegno di legge abominevole, trasmesso nei giorni scorsi a Palazzo Chigi, non farà altro che cementare una volta per tutte le disuguaglianze economiche e sociali fra le diverse aree.

 

L’ultima versione del testo, assicura il ministro leghista, raccoglie le indicazioni delle Regioni e le “riflessioni nate dal primo confronto in Parlamento e con gli altri interlocutori”. Calderoli spera che il Consiglio dei ministri approvi il provvedimento in via preliminare per inviarlo poi alla Conferenza unificata, con l’obbiettivo di approdare in Parlamento per la discussione già entro gennaio.

La strategia è evidentemente quella di accelerare, così da svincolare l’autonomia differenziata dal presidenzialismo, la revisione costituzionale cara a Fratelli d’Italia e che Giorgia Meloni vorrebbe gemellare alla riforma leghista nel più classico dei do ut des. Sempre per stringere i tempi, Calderoli ha fatto inserire nella legge di bilancio la norma sulla definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), cioè le soglie minime dei servizi pubblici da offrire in tutta Italia, che in teoria dovrebbero essere una garanzia per le aree meno avanzate, soprattutto in ambiti cruciali come sanità, scuola e ambiente. Stando alla norma contenuta nella manovra, sui Lep sarà predisposta una Cabina di regia che avrà un compito da fantascienza: scrivere entro un anno i decreti (Dpcm) per definire i livelli essenziali delle prestazioni, i costi e i fabbisogni standard nelle materie che le Regioni potranno avocare a sé dallo Stato centrale con l’autonomia differenziata. I primi trasferimenti di poteri, infatti, dovrebbero avvenire a inizio 2024.

Che si tratti di un bluff è evidente proprio dalla scansione temporale, più inverosimile di un film della Marvel. Il trucco è questo: se il governo non riuscirà a stabilire i Lep entro un anno – il che è ovvio – le competenze passeranno direttamente ai governatori, che avranno l’agio di sceglierle à la carte da una lista di 23 materie indicate ai commi 2 e 3 dell’articolo 117 della Costituzione (oltre a salute, istruzione e ambiente, l’elenco comprende, fra l’altro, reti di trasporto, energia, finanza pubblica e sistema tributario, beni culturali, commercio estero, tutela e sicurezza del lavoro). L’aspetto decisivo è che lo Stato centrale, una volta siglate le intese con le Regioni, non avrà il potere di revocarle né di modificarle. E i Lep, se mai vedranno la luce, arriveranno sicuramente dopo questi accordi irreversibili, segnalando la necessità di una redistribuzione delle risorse che a quel punto sarà impossibile, perché nessuna Regione ricca – se non obbligata – accetterà mai di privarsi di qualcosa per aiutare chi sta peggio.  

Risultato: l’Italia sarà spaccata in 20 e chi avrà la fortuna di nascere al Nord potrà contare su un livello di servizi pubblici che sarà sempre molto più alto di quello fornito al Sud. La differenza rispetto al presente è proprio che questa sperequazione viene stabilita per legge una volta per tutte, cancellando anche la sola possibilità teorica di ridurre gli squilibri fra le diverse zone del Paese.

Se n’è accorto perfino Stefano Bonaccini, che governa una delle Regioni favorite dalla riforma (la ricca Emilia Romagna), ma ambisce a diventare segretario del Pd, e perciò devono avergli spiegato che abbandonare il Sud potrebbe pesare sulle sue ambizioni di uscire dall’ambito locale della politica. “Il Governo si fermi e torni a confrontarsi con le Regioni e con i sindaci anziché calare dall’alto scelte sbagliate - ha scritto Bonaccini su Facebook - All’Italia non servono divisioni, perché di fratture ne ha già abbastanza. Serve invece un’autonomia giusta e solidale, che semplifichi la vita di cittadini e imprese, che avvicini le scelte al territorio, che consenta di programmare e gestire meglio le risorse e di realizzare investimenti in tempi più rapidi”.

Ora, di quale autonomia alternativa parli Bonaccini non è chiaro, ma questo è un vecchio problema della politica italiana. È evidente che, in teoria, per ridurre la frammentazione del Paese bisognerebbe limitare l’autonomia delle Regioni anziché aumentarla (soprattutto in ambiti ad alta incidenza di corruzione, come la sanità). Ma è altrettanto evidente che nessun leader nazionale potrà mai sostenere questa tesi, perché in questo modo si metterebbe contro quelle consorterie locali senza le quali non ha alcuna speranza di vincere o di fare carriera. È un circolo vizioso, un rompicapo a cui è impossibile dare senso. Per quanto abominevole, in fondo, la riforma Calderoli potrebbe avere almeno questo merito: seppellire per sempre una delle contraddizioni che non risolveremo mai.

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